Die freie Wissenschaft ist bedroht
Fördert die mächtige Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG) den Ideenklau und die Selbstbedienung? Transparenz ist für sie ein Fremdwort. Dieses Monopol ist bedenklich.
(Roland Reuss und Volker Rieble, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18. Oktober 2011)


Nobel und frei
(Hildegard Kaulen, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5. Oktober 2011)


Die sanfte Steuerung der Bildung
Handelt es sich um eine Scheindemokratie, die den Volkswillen als zufällig und lenkbar ansieht? Zu den Durchsetzungsstrategien von Pisa, Bologna & Co.
(Jochen Krautz, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29. September 2011)


The Lairds of Learning
How did academic publishers acquire these feudal powers?
(George Monbiot, Guardian, 30th August 2011)


Flachforscher
Medizinische Doktorarbeiten haben in der Wissenschaft einen besonders schlechten Ruf – leider zu Recht. Jetzt reagieren die Universitäten.
(Martin Spiewak, Die Zeit, 29. August 2011)


Mathematicians' self-confidence and responsibility
(F. Thomas Bruss, Newsletter of the European Mathematical Society, March 2011)


Annoiati e contenti
Il divertimento forzato è roba da carcerati del tempo. Meglio una noia calcolata, ben diversa da ozio e pigrizia

Se volete un consiglio per un'attività estiva, eccolo: annoiatevi. Provare ad annoiarsi è più difficile che tentare di divertirsi. Bisogna saper resistere alla fretta, agli amici, alle occasioni e ai cattivi pensieri, uno su tutti: sto sprecando il mio tempo. Invece chi si annoia oggi si prepara a divertirsi domani.
Il divertimento forzato è roba da carcerati del tempo. Fare il bagno nel mare una notte è meraviglioso; fare il bagno nel mare tutte le notti è banale (umido e stancante). Aspettare l'alba una volta con gli amici, e bere un cappuccino all'apertura dei bar, è memorabile. Fare l'alba tutti i giorni è una noiosa manipolazione dei fusi orari: uno vive sull'orario di Fort Lauderdale anche se è in vacanza a Forte dei Marmi. Il cappuccino lo fanno sia qui che là.
Le transumanze serali dei condannati al divertimento, in questa rotonda estate 2010, muovono a compassione. Stessi aperitivi, stesse frasi («Ehi raga, e adesso?»), stesse sigarette, stessi posti, stessi orari, stessa aria da comparse pubblicitarie. Solo gli adolescenti hanno la facoltà dell'uniformità; dai diciott'anni in poi si ha il dovere d'inventarsi almeno il tempo libero, visto che il resto è spesso obbligato.
L'Italia stesa al sole offre molte possibilità. Annoiarsi -senza esagerare- è una bella soluzione. Un modo sano per ripristinare un circolo virtuoso: mi annoio, mi vien voglia di divertirmi, mi diverto, mi stanco, mi riposo, mi annoio. Leggete Il tempo breve di Marco Niada (Garzanti): è un antidoto al veleno della frenesia.
La serata perfetta non è un diritto costituzionale, ma il frutto di pazienza, intuizione e combinazione. Non è neppure qualcosa che si compra: i soldi, in questa materia, sono utili, ma non garantiscono. Se avete dubbi provate a frequentare i luoghi dei ricchissimi: chissà cosa darebbero per divertirsi come a vent'anni, con una vespa e una birra.
Il divertimento continuo e obbligatorio sta provocando disastri. Per compensare l'eccitazione che scende si cercano stimoli sempre maggiori: più posti, più strada, più forte, più rischi e meno scrupoli. Prima o poi, venuta a noia anche l'orrenda equazione nordeuropea (sono ubriaco = mi diverto), arriva l'amico dell'amico che ha polvere in tasca (e sabbia al posto del cervello): e qualcuno, invece d'insultarlo, aspetta il suo turno.
La medicina, dicevo, è la noia. Una noia calcolata e coltivata, troppo razionale per essere ozio e troppo occasionale per diventar pigrizia. Aspettare le cinque del pomeriggio nella penombra dietro una persiana, con un libro e un marito, entrambi così così. Curare il giardino, quand'è chiaro che è lui a curare noi. Lavare la macchina pensando al primo sorso di birra. Guardare, dall'alto di un albergo o una collina, l'ingannevole ordine di una spiaggia, il luogo dove l'Italia scende nel mare, che le perdona quanto ha combinato più su.
(Beppe Severgnini, Corriere della Sera, 22 luglio 2010)


Dante, ma chi è?
I tagli e le scelte della politica hanno provocato il crollo dell'istruzione. Scuole e università sono in crisi. Così si perde la sfida alla modernità

L'economista Luca Bianchi ha capito tutto quando il falegname gli ha rivelato le sue angosce di padre. "Eravamo in cucina, lui stava armeggiando con il cacciavite. Parlavamo, lo conosco da tanto. Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: 'Dotto', sono preoccupato per mio figlio: vuole iscriversi a Medicina e diventare chirurgo. Invece di prendere in mano il negozio e guadagnare minimo minimo 3-4 mila euro al mese, vuole fare il disoccupato, l'infermiere se gli va bene. Dotto', glielo dica lei che è meglio essere ignoranti e ricchi piuttosto che intelligenti ma poveri in canna'. Ecco: il mio falegname mi ha fatto capire meglio di un trattato specialistico perché l'Italia è sempre più analfabeta: semplicemente, studiare non conviene più". L'artigiano che ha capovolto in un amen il mito anni '60 del 'figlio dottore' è in buona compagnia: dal Veneto alla Sicilia le famiglie hanno intuito da un pezzo che la cultura, lo studio, la laurea, le capacità intellettuali, non rendono come accade nel resto d'Europa. "Non a caso stanno limitando gli investimenti formativi sulla prole", aggiunge l'esperto: "Nel 2008 e nel 2009 le iscrizioni negli atenei sono crollate".
Gli italiani stanno diventando sempre più poveri, sia nello spirito che nel portafogli. I ricercatori evidenziano che l'incapacità a far di conto o di azzeccare un congiuntivo, l'impossibilità di parlare decentemente inglese o brevettare un'invenzione significa perdere la battaglia per rimanere competitivi sul mercato mondiale. Ma gridano nel deserto. In Italia la ricerca e l'eccellenza non trovano più spazio nel mondo del lavoro e la qualità non è premiante nemmeno nelle università e nelle scuole. Le nostre imprese, come dimostrano le ricerche di Excelsior Unioncamere, assumono al 90 per cento solo diplomati e personale con la licenza media o elementare, mentre gli investimenti sui cervelli restano asfittici. I governi tagliano le spese legate all'istruzione come fossero foglie morte da cimare, mentre l'Italia potrà mantenere posizioni di leadership e un livello di ricchezza vicino agli altri partner del G7 solo puntando sulla conoscenza, il plusvalore del capitalismo postindustriale su cui fanno affidamento i paesi avanzati. "Difficile dire se sia nato prima l'uovo o la gallina, se le responsabilità siano di un popolo con un basso livello d'istruzione o di una classe dirigente impreparata e irresponsabile", dice a 'L'espresso' Giacomo Vaciago, ordinario di politica economica alla Cattolica, "ma una cosa è certa. Se non si inverte il trend, il futuro sarà assai peggiore di un presente già nero".
Nella nazione che ha dato i natali a Dante e Leopardi, nell'anno di grazia 2010 quasi un milione di persone non sa prendere una penna in mano o distinguere una lettera da un'altra. Oltre 5 milioni di concittadini non hanno alcun titolo di studio, 13 milioni solo quello di quinta elementare. Tullio De Mauro ha disegnato più volte i confini del disastro: "Il 25 per cento degli studenti con la licenza media non sa né leggere né scrivere, né fare di conto". Il linguista ricorda due recenti indagini comparative svolte in vari paesi: in quanto a ignoranza, solo gli abitanti dello Stato del Nuevo Leon, in Messico, ci battono. Sembra incredibile, ma il risultato è logica conseguenza del nostro sistema formativo. Secondo l'Eurostat, nella classifica dei titoli minimi di studio sui 27 membri della Ue siamo quart'ultimi, solo Spagna, Malta e Portogallo fanno peggio. Identiche posizioni per la classifica sui giovani che abbandonano prematuramente gli studi: due anni fa un ragazzo su cinque si è 'ritirato' dalla scuola superiore.
Il panorama non migliora se si parla di consumi culturali. Non ci è mai piaciuto spendere molto per cinema, teatro, concerti, libri o giornali. Le file ai festival letterari o filosofici sono passioni riservate a poche élite, la foglia di fico di un popolo che investe in ricreazione 'intelligente' solo gli spiccioli. I mecenati esistono ancora, ma preferiscono accostare il loro nome al calcio: con il miliardo speso dai Moratti per rinforzare l'Inter si potevano finanziare per tre anni tutti gli spettacoli dal vivo prodotti nel Paese. Se gli italiani investono in cultura il 6,9 per cento del loro budget mensile (Eurostat 2006), in percentuale i finlandesi, i danesi e gli inglesi spendono quasi il doppio. Solo i rumeni e i lituani sono più tirchi di noi. Dal 2000 al 2007 secondo l'Istat in tutte le regioni la cultura ha perso appeal, e ormai solo l'Emilia-Romagna si avvicina alla media europea. Le altre tabelle sono logica conseguenza: siamo tra le nazioni che leggono meno libri (per i maschi, in particolare, è praticamente un oggetto sconosciuto), i quotidiani sono acquistati da un gruppo di fan (dati alla mano è più sensato aprire un'edicola in Bulgaria che in Basilicata), non sappiamo nulla della nostra storia e delle nostre tradizioni. Persino religiose: secondo un'indagine Eurisko i cattolicissimi italiani non hanno mai letto la Bibbia, non conoscono la differenza tra Nuovo e Antico Testamento, né chi era Mosè, per non parlare della confusione che regna quando bisogna indicare i nomi dei quattro evangelisti.
Anche se possediamo il più grande giacimento di opere d'arte del mondo i musei tricolori sono, ça va sans dire, tra i meno visitati del mondo. La rivista 'The Art Newspaper' qualche giorno fa ha elencato la lista dei musei e delle mostre più popolari del 2009: primo il Louvre, secondo il British di Londra, poi il Metropolitan di New York, solo 21esimi gli Uffizi di Firenze, lontanissimi pure dal museo coreano a Seul. I Musei Vaticani si piazzano al settimo posto grazie all'attrazione esercitata dalla Cappella Sistina di Michelangelo. "Ma l'aspetto davvero sconfortante è un altro", spiega il direttore Antonio Paolucci, storico dell'arte ed ex ministro dei Beni culturali: "La gente che ci viene a visitare è sempre più incolta, teledipendente, non sa scrivere mezza cartella senza fare errori, ed è incapace di capire praticamente nulla di ciò che vede. Siamo nel pieno di un black out semantico, il popolo regredisce perché ha perso pure quelle informazioni che aveva ereditato dalla tradizione orale: chieda a qualcuno chi erano i re di Roma, gli Orazi e i Curiazi, Giulio Cesare. Prima tra gli italiani la storia era patrimonio comune, ora non la masticano nemmeno i laureati".
Eppure la politica tratta la questione come fosse un problema marginale, secondario. Si litiga sulla giustizia, sulle riforme, sulle tasse, ma alla parola scuola e cultura si mette subito mano alla forbice. I tagli alla spesa pubblica, negli ultimi dieci anni, hanno interessato soprattutto formazione obbligatoria, università e ricerca. Il budget destinato all'istruzione, già molto più basso di paesi come Danimarca, Francia, Cipro e Slovenia, dal 2003 al 2007 è calato costantemente, almeno secondo i dati del ministero dello Sviluppo economico. Per migliorare il livello tecnologico delle aziende riusciamo a fare peggio, spendendo solo 1,2 per cento del Pil: meno della metà di Germania, Francia e Regno Unito. Il governo negli ultimi due anni ci ha messo il carico da novanta, facendo a pezzi quello che rimaneva della scuola, bloccando le assunzioni dei ricercatori, tagliando di qualche centinaio di milioni il Fus, il fondo unico per lo spettacolo. "Esigenze di bilancio", ripete Tremonti, ma misure draconiane simili non hanno confronti negli altri paesi colpiti dalla crisi.
L'impoverimento culturale, d'altronde, va in parallelo con quello del Parlamento e, più in genere, della nostra classe dirigente: l'Eurostat segnala che meno di un terzo delle nostre élite ha concluso l'università, rispetto al 65 per cento della Germania e al 58 della Francia. Leggendo una ricerca curata da Giovanni Sartori si scopre che nel 1909, in seguito all'ultima elezione a suffragio ristretto, i dottori eletti rappresentavano il 79 per cento della Camera, quota simile a quella registrata dall'assemblea costituente e dai Parlamenti nelle prime legislature. Dagli anni '80, ci ricorda il costituzionalista Michele Ainis nel libro 'La cura', cambia tutto: i laureati diminuiscono a vista d'occhio, e per la prima volta diventano presidenti del Consiglio leader che non sono arrivati a discutere la tesi (Craxi prima, D'Alema poi). La competenza specifica e le conoscenze tecniche non sono più considerate decisive per le posizioni apicali: Romano Prodi chiama 18 sottosegretari e cinque ministri senza laurea, Ottaviano Del Turco diventa ministro delle Finanze nel 2000 avendo in tasca la licenza media, Livia Turco si insedia al dicastero della Salute senza sapere nulla di medicina. Il trionfo degli ignoranti in politica viene svelato dalle gaffe di Berlusconi (ha una laurea in legge, ma per lui i fondatori di Roma sono "Romolo e Remolo") e grazie a inchieste come quella delle 'Iene' scopriamo deputati di sinistra che piazzano la Rivoluzione francese nel '600, senatori di destra che non sanno chi ha dipinto la 'Gioconda', esponenti della commissione Esteri certi che Abu Mazen sia il presidente dell'Iran. Persino un professore esimio come Pancho Pardi ignora chi sia il Dalai Lama ("Non so, il capo degli indù?").
In un quadro simile, non sorprende che parlamentari e ministri non si affannino a presentare decreti e disegni di legge per potenziare gli investimenti pubblici destinati al sapere, né che Regioni come Campania e Lazio abbiano speso milioni di euro in corsi per veline, tatuatori ed esperti di piercing. Le responsabilità, però, vanno divise. Anche il mondo del lavoro, e in particolare il nostro sistema imprenditoriale, punta sulle braccia più che sulla testa. I settori ad alto valore aggiunto, come l'high tech e l'elettronica, non sono mai decollati. La chimica è praticamente scomparsa, la farmaceutica è residuale, persino la Telecom rischia di finire in mani spagnole, mentre l'eccellenza si rifugia nei soliti marchi di punta del tessile e della meccanica. "Non dimentichiamo che il nostro tessuto produttivo è composto soprattutto da piccolissime aziende", ragiona Daniele Marini, direttore della Fondazione Nord Est, "parliamo di ditte composte da tre, quattro dipendenti che spesso non hanno la forza per rinnovarsi come richiede la congiuntura. Bisogna puntare di più sull'innovazione, sulle nuove tecnologie, sui nuovi modelli di organizzazione. Snobbando la cultura, poi, affossiamo quello che dovrebbe essere il primo settore nazionale: il turismo".
L'indagine Excelsior Unioncamere del 2009 evidenzia che le aziende, su 523 mila posti vacanti, prevedono di assumere solo 62 mila laureati. Poco più del 10 per cento, quota che precipita quando l'impresa è sotto i dieci dipendenti. Secondo i questionari, oltre la metà degli imprenditori considera il titolo di studio "poco o per niente importante". Guarda un po', in Italia gli addetti alla ricerca e sviluppo sono un terzo di quelli impiegati in Scandinavia, la metà di coloro che lavorano in Germania, Francia e Inghilterra. Il sottoutilizzo è diventato la regola: gli ingegneri fanno i tecnici, gli architetti i geometri, gli avvocati gli assicuratori. "Laurearsi significa emigrare", conclude Bianchi, "gli studenti più bravi del Centro-Nord lo fanno in massa, e alla fine della fiera il saldo è paradossale: stiamo esportando forza lavoro superqualificata, mentre importiamo immigrati quasi sempre con qualifiche basse".
Ovviamente, il trionfo dell'ignoranza non sarebbe possibile se scuole e università facessero il loro mestiere. "Quando le imprese assumono", ricorda Vaciago, "poi sono quasi sempre costrette a proseguire la formazione. Dagli atenei escono perfetti incapaci. È un dramma per tutti, perché non saranno in grado di competere nel mondo del lavoro globalizzato". Il resto del mondo punta sull'innovazione e la scuola, noi no. Restiamo dei conservatori, decliniamo latino e greco, ma inglese e matematica sono hobby per pochi. La Lega chiede l'esame di lingua agli stranieri che vogliono lavorare sotto le Alpi, ma sono molti gli italiani che - davanti a una prova scritta - rischiano di fare peggio di ucraini e sudamericani. Se i dati della ricerca 'Pisa' dell'Ocse fanno degli alunni meridionali i più asini d'Europa, uno studio dell'Accademia della Crusca ha rivisto il tema d'italiano dell'esame di maturità del 2007: fosse stato per gli esperti dell'istituzione fiorentina più della metà del campione sarebbe stato da bocciare, invece professori troppo buoni (o troppo impreparati) hanno promosso tutti. Il livello è tale che a Torino nel 2009 la facoltà di Medicina ha deciso di organizzare corsi di recupero di grammatica e sintassi. L'ultima cattiva notizia arriva dalla Corte dei conti, dove i magistrati hanno sbertucciato la riforma della 'laurea breve' voluta dal centrosinistra oltre dieci anni fa: nessun laureato in più, nessun miglioramento della qualità.
"Della scuola non importa niente a nessuno, eppure tra alunni, insegnanti, bidelli e ministeriali nel sistema formativo nazionale ogni giorno lavorano e studiano oltre 10 milioni di persone", chiude Vaciago, "è la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi un governo. Bisognerebbe valorizzare i talenti, smantellare gli sprechi legati alle carriere dei professori, costruire aule. Invece la riforma Gelmini va in senso contrario". Il curriculum del ministro Mariastella, d'altronde, non riserva sorprese: il pellegrinaggio in tre licei prima della maturità, la laurea in giurisprudenza in sette anni (voto 100) e la trasferta a Reggio Calabria per diventare avvocato sono le tappe tipiche della nuova classe dirigente.
(Emiliano Fittipaldi, L'Espresso, 13 maggio 2010)


L'Italia e il paziente che l'America non cura

In questi giorni a uno dei nostri Ospedali è arrivato per e-mail dagli Stati Uniti questo messaggio: «Cerco un dottore che mi aiuti per la malattia di mio fratello. Ha 33 anni e una malattia rarissima. Lo curano all'Hershey Medical Center in Pennsylvania, gli stanno facendo scambi di plasma ma la pressione del sangue continua ad aumentare, sta perdendo la vista e i suoi reni non funzionano quasi più, il numero delle piastrine nel sangue diminuisce giorno dopo giorno e anche i globuli rossi. Credo non ci sia più tempo da perdere. La mia impressione è che di questa malattia in quell'Ospedale lì ne sappiano pochino. Forse c'è una medicina che potrebbe salvarlo, almeno così m'è sembrato di capire, ma a lui non la danno, è una questione di assicurazione: i suoi datori di lavoro gliel'hanno cancellata. Chiamatemi per favore in qualunque momento» (e c'è un numero di telefono).
Ma possibile che a un giovane che si ammala venga tolta l'assicurazione e non lo si possa più curare? Non c'è la riforma della sanità adesso negli Stati Uniti?
La riforma c'è, o meglio ci sarà. Per adesso - salvo avere un'assicurazione privata - per quasi 180 milioni di americani le cure le paga l'assicurazione del datore di lavoro. Il governo paga per i poveri, i disabili e gli anziani ma almeno 40 milioni non sono assicurati "abbastanza" e altri 46 milioni non hanno accesso alle cure incluse quelle più necessarie. Di questi 32 milioni saranno assicurati dalla riforma di Obama, ma solo a partire dal 2014. Comunque la riforma non prevede una copertura per tutti, tanti - forse 20 milioni - resteranno fuori. Le persone giovani per esempio, quelli che hanno appena incominciato a lavorare come il fratello della ragazza della lettera. Il datore di lavoro non li assicura ma loro il lavoro ce l'hanno, e così non possono accedere all'assicurazione del governo per i poveri (Medicaid) e sono troppo giovani per aver accesso a Medicare, la forma attraverso cui il governo cura gli anziani.
«Obama ha aperto una strada - scrive in questi giorni il British Medical Journal in un editoriale - ma resta ancora moltissimo da fare». Cosa si potrà fare di più? Un progetto ci sarebbe. L'hanno pubblicato qualche anno fa sul giornale dell'Associazione dei Medici Americani ed è condiviso da ottomila dottori (tra loro c'è Marcia Angell, ex direttore del New England Journal of Medicine). Partono dall'idea che la salute è un diritto per tutti non solo per chi ha un buon impiego, e che va garantito dalla società. «E poi» dicono «è l'ammalato che deve prendere le decisioni sulla propria cura, insieme al suo medico. Non le assicurazioni o l'industria del farmaco, che decidono le cure a seconda di quello che conviene loro». Questi medici vorrebbero una National Health Insurance - un po' come il nostro servizio sanitario, insomma - sostenuta dalle tasse. E che fosse per tutti, per tutte le fasce d'età, per le emergenze mediche e per le malattie croniche, incluse malattie mentali e cura dei denti. Così ci sarebbe anche in America il diritto alla salute. Aumenterebbero le tasse, ma solo per i redditi più alti. Gli altri pagherebbero una tassa in più per la salute ma non si dovrebbero occupare più dell'assicurazione.
Certo, per avere buone cure con una spesa ragionevole bisognerà prima stabilire cosa serve davvero ed escludere dai rimborsi le cure non necessarie e non efficaci.
Il ragazzo della lettera verrà da noi. Forse guarirà o forse no, dipende anche dalla nube, e se arriverà in tempo.
Il farmaco che gli serve l'hanno inventato negli Stati Uniti e lo fabbricano a Smithfield, vicino a Boston. Ma a lui adesso non lo possono dare. E non l'avrebbe nemmeno se la riforma di Obama fosse in vigore già oggi.
(Giuseppe Remuzzi, Corriere della Sera, 20 aprile 2010)


Sconnessi e somari
Homo videns e homo zappiens

Analfabeta è chi non sa l'alfabeto, e che perciò non sa leggere né scrivere. Beninteso, anche l'analfabeta parla e capisce frasi elementari. Per esempio capisce la frase «il gatto miagola», ma è già in difficoltà se la frase diventa «il gatto miagola perché vorrebbe bere il latte». L'esempio è di Tullio De Mauro, principe dei nostri linguisti, che torna alla carica con una nuova edizione del suo libro La cultura degli italiani. Cultura o incultura?

I suoi dati dicono che il 70% degli italiani è pressoché analfabeta o analfabeta di ritorno: fatica a comprendere testi, non legge niente, nemmeno i giornali. Per il sapere un 70% di somari è una maggioranza deprimente; e per la politica costituisce un'asinocrazia travolgente e facile da travolgere. Perché siamo arrivati, o scesi, a tanto? Quasi tutti puntano il dito sullo sfascio della scuola, a tutti i livelli. Perché è la scuola che dovrebbe «alfabetizzare». Sì, ma chi ha sfasciato la scuola? Alla fonte, e più di ogni altro, sono stati i pedagogisti, il «novitismo pedagogico», i diseducatori degli educatori. E poi, s'intende, tanti altri: il sessantottismo demagogico dei politici, e anche la marea dilagante delle famiglie Spockiane (illuminate dal permissivismo a gogo del celebre dottore Benjamin Spock).

Ma quando si discute di trasformazioni della natura umana (io nel 1997 nel libro Homo Videns e di recente altri con la formula dell'Homo Zappiens) allora il fattore decisivo è la tecnologia. Così alla fine del 1400 nasce l'uomo di Gutenberg con l'invenzione della riproduzione a stampa della preesistente scrittura a mano; così, sostengo, l'invenzione della televisione crea un uomo forgiato dal «vedere» il cui sapere e capire si riduce all'ambito delle cose visibili a danno delle idee, delle immagini mentali create dal pensiero. Al limite, l'homo videns sa soltanto se vede e soltanto di quel che vede. Il che equivale a una perdita colossale delle nostre capacità mentali. Invece la teoria dell'homo zappiens trasforma questa perdita in una glorificazione, in un annunzio di nuovi e gloriosi destini.

La dizione è ricavata dal telecomando che consente e produce il cambiamento incessante dei canali televisivi; il che abituerebbe il nostro cervello al cosiddetto multitasking, al saper fare molte cose contemporaneamente. Davvero? Io direi, invece, che così veniamo abituati alla «sconnessione», a un saltare di palo in frasca che equivale alla distruzione della logica, della capacità logica di pensare una cosa alla volta, di mettere questa scomposizione analitica in sequenza, e nell'accertare se un rapporto prima-dopo sia anche un rapporto causa-effetto. Il progresso della tecnica è inevitabile. Ma deve essere contrastato quando produce l'homo stupidus stupidus. Sempre più i ragazzi di oggi vivono per 12 ore al giorno in «iperconnessione» e così, anche, in «sconnessione». Sono giustamente disgustati dalla politica. Ma dovrebbero anche essere disgustati di se stessi. Cosa sapranno combinare da grandi?
(Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 22 marzo 2010)


Una crisi sprecata

Stiamo sprecando le opportunità di riforma offerte dalla crisi. È un vero delitto, data l'angoscia e le sofferenze che ha creato, e il peso che ha caricato sulle spalle delle finanze pubbliche. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si occupano di hedge fund e «credit default swap» (o CDS, quei contratti con i quali ci si assicura contro il fallimento dei debitori e che sono usati, secondo le loro accuse, per scommettere contro l'euro). O non hanno capito niente, o devono creare diversivi per distrarre l'attenzione dalla precarietà delle loro grandi banche e delle finanze pubbliche. Gli hedge fund, per esempio, sono molto, ma molto, meno a rischio delle banche. Speculano molto meno e la volatilità del loro capitale negli ultimi 10 anni è stata meno di un terzo di quella delle banche. Il rischio che gli hedge aggressivi hanno in portafoglio è supportato da un livello di capitale pari a circa 3 volte il minimo prudenziale richiesto alle banche, ed è il doppio almeno di quello che avrebbero le banche a parità di rischio. In questa crisi, pochi hedge sono falliti e nessuno ha messo a rischio il sistema o ha dovuto essere sostenuto con denaro pubblico. Potenza dell'autodisciplina imposta dal mercato ad operatori che non sono troppo grandi per fallire e che hanno quasi sempre tutto il loro patrimonio personale investito nei fondi che gestiscono. Malgrado l'alleggerimento delle regole contabili, la situazione delle grandi banche resta preoccupante, come spiega uno studio della Banca del Ceresio ripreso dal Financial Times. L'analisi dei bilanci a fine 2009 delle prime 5 banche americane ed europee evidenzia per questi 10 istituti una leva ancora di 18 volte: meno di 6 euro di capitale ogni 100 euro di attivi. Se i loro attivi perdono più del 5,5%, queste banche si ritrovano insolventi. Gli ottimisti notano che con una leva così se si guadagna più di un euro all'anno ogni cento di attivi, come sta in effetti succedendo, in 5 anni si ricostruisce il capitale. Ma un Return on Equity superiore al 20% in un'industria soggetta a regole prudenziali e finanziata da depositi garantiti dai contribuenti è sintomo di mezzi propri insufficienti, non di alta redditività ed efficienza che vengono poi prese come scuse per intascare bonus milionari. Che rischio hanno gli attivi di queste 10 grandi banche? Dai bilanci si evince un rapporto tra attivi ponderati per il rischio ed attivi totali del 46 per cento. Se fossero investite solo in obbligazioni AAA il rapporto sarebbe del 25%, mentre se fossero investite solo in azioni quotate sarebbe 125 per cento. Una via di mezzo quindi. In pratica il profilo di rischio è identico a quello del portafoglio di un signore che, avendo 100 euro di risparmi propri, ne avesse investiti 390 in azioni e 1.470 in bond AAA, facendosi finanziare la differenza da qualche matto. Ma i matti siamo tutti noi, o come depositanti, o come contribuenti, chiamati poi a salvare le banche che con questo profilo di rischio hanno la certezza di ritrovarsi insolventi almeno ogni 5 anni, se facessero i conti giusti... Purtroppo politici e regolatori non sembrano interessati a porsi le domande da cui potrebbero nascere le riforme di cui abbiamo urgente bisogno. Che mestieri devono fare le banche e con quanto capitale? Ormai per ognuno dei mestieri che fanno esistono intermediari specializzati e meglio capitalizzati. Chi deve imporre la disciplina alle banche? I regolatori hanno clamorosamente fallito proprio nel settore ove avevano i più vasti poteri. Che mercati finanziari vogliamo? Il grosso dell'intermediazione avviene in alvei opachi di negoziazione dominati da pochi grandi banche che intascano indebite rendite oligopolistiche, mentre i mercati regolamentati vengono indeboliti da normative nefaste come la MIFID. È giusto anche chiedersi che ruolo devono avere i CDS. Ma prendersela con un ambasciatore probabilmente inadatto perché il suo messaggio porta pena è un pessimo uso del poco tempo che ci resta prima che si perda il senso di urgenza della crisi e si ritorni ad una normalità ancora più precaria della precedente. Dato lo stato delle finanze pubbliche, non avremo più per troppi anni le risorse per arginare un'altra crisi finanziaria così efficacemente come fatto finora.
(Giovanni Foglia, Corriere della Sera, 22 marzo 2010)


It wasn't us
Alan Greenspan and Ben Bernanke still do not believe monetary policy bears any blame for the crisis

THE desire to rescue a damaged reputation is a powerful motivator. That is one conclusion to draw from a new 48-page paper written for the Brookings Institution by Alan Greenspan, the 83-year-old former chairman of America’s Federal Reserve. A man once hailed as the world’s outstanding central banker is now routinely blamed for the asset bubble and subsequent collapse. This is Mr Greenspan’s attempt to set the record straight.

The crisis, he argues, stemmed from a “classic euphoric bubble” whose roots lay in the sharp global decline in nominal and real long-term interest rates in the early part of the 2000s, which fuelled an unsustainable boom in house prices. Thanks to this euphoria, banks misread the risks embedded in complex new financial instruments. Mr Greenspan reckons the best remedy is to improve the system’s capacity to absorb losses by raising banks’ capital and liquidity ratios and increasing collateral requirements for traded financial products.

So far, so uncontroversial. Mr Greenspan’s analysis of the fragilities within finance, and his specific proposals, echo today’s policy consensus. The one area where he differs from the reform consensus is over the wisdom of a “systemic regulator”. Today’s policymakers see such a regulator, which would monitor the health of the financial system and sniff out incipient problems, as an important improvement. Mr Greenspan says it is impossible to anticipate crises and regards such a regulator as “ill-advised”.

But the biggest gap between Mr Greenspan and conventional wisdom lies in the role of monetary policy in causing the crisis. In Mr Greenspan’s telling, central banks were innocent and impotent bystanders in a global macroeconomic shift. Thanks to the end of the cold war and reform in China, he argues, hundreds of millions of workers were absorbed into the global economy. As GDP growth in emerging economies soared, their consumption could not keep up with rapidly rising income, and saving rose. The rise in desired global saving relative to desired investment caused a global decline in long-term rates, which became delinked from the short-term rates that central bankers control.

This explanation is broadly similar to the idea of a “global saving glut” which Ben Bernanke, the Fed’s current chairman, has long espoused. The similarities between the two men’s defence of their monetary records do not end there. The most combative section in Mr Greenspan’s paper—arguing that monetary policy in the early 2000s was not a cause of the housing bubble—is strikingly similar to a speech given by Mr Bernanke at the American Economics Association’s annual meeting in January.

Both men make three broad points. First, they deny that monetary policy in the early 2000s was excessively loose by traditional central-bank rules of thumb. That is a criticism frequently made by John Taylor of Stanford University, author of the Taylor rule on how interest rates should change in response to movements in inflation and GDP. Mr Bernanke points out that based on contemporary forecasts for its preferred inflation measure, the Fed actually followed the Taylor rule reasonably closely.

Second, both men say there is no evidence that low short-term rates drove house prices upward. Mr Greenspan argues that the statistical relationship between house prices and long-term rates is much stronger than with the Fed’s policy rates, and that during the early 2000s the traditionally high correlation between policy rates and long-term rates fell apart. Mr Bernanke points to structural models which show that only a modest part of the house-price boom can be pinned on monetary policy.

Both are equally sceptical that the increase in adjustable-rate mortgages made short-term rates a more potent driver of house prices. Mr Greenspan says that the pace of adjustable-rate mortgage originations peaked two years before house prices, suggesting they were not driving the bubble. Mr Bernanke argues that the monthly payments on adjustable-rate mortgages were, on average, only 16% lower than those for fixed-rate mortgages—too small a gap to suggest that short-term rates propelled the boom.

Third, Messrs Bernanke and Greenspan point to the global nature of the house-price boom as proof that monetary policy was not to blame. Both cite new research from economists at the Fed showing that the looseness of monetary policy in different countries was not correlated with changes in house prices.

Protesting too much
There is something odd about central bankers denying any responsibility at all for long-term rates, which are, in principle, based partly on an assessment of a stream of short-term rates. Nor is it clear that low short-term rates were as irrelevant as Messrs Bernanke and Greenspan suggest. Jeremy Stein of Harvard University, a discussant of Mr Greenspan’s Brookings paper, points out that low policy rates may have mattered a great deal for income-constrained borrowers. He points out that adjustable-rate mortgages were used much more in expensive cities, a trend that became more pronounced as the fund rates fell.

By looking only at the effect of monetary policy on house prices, Messrs Bernanke and Greenspan also take too narrow a view of the potential effect of low policy rates. Several economists have argued convincingly, for instance, that low policy rates fuelled broader leverage growth in securitised markets.

Monetary policy may be a blunt tool to deal with asset bubbles. But that does not mean it is irrelevant. Interestingly, one American central banker has a more nuanced view, arguing that “in the current episode, higher short-term interest rates probably would have restrained the demand for housing by raising mortgage interest rates… In addition, tighter monetary policy may be associated with reduced leverage and slower credit growth.” That was Janet Yellen, president of the San Francisco Fed, who is likely to be Mr Bernanke’s new vice-chairman. With luck, she will prompt her boss to have a rethink.
(The Economist, March 20th 2010)


Smokescreen
Blaming speculators for sovereign-debt woes is misguided. Banning them would be worse

GREECE had a budget deficit of 12.7% of GDP in 2009. It has a record of dodgy accounting. Its own leaders acknowledge how dire its fiscal situation is. George Papaconstantinou, the country’s finance minister, summed it up pretty well last month. People think we are in a terrible mess. And we are.

That hasn’t stopped his boss, George Papandreou, and other European leaders from jabbing fingers elsewhere. To judge by this week’s political rhetoric, the blame for Greece’s woes lies largely with speculators, who stand accused of buying sovereign credit-default swaps (CDSs), a form of insurance against government default, in the hope of profiting from jitters about sovereign debt. “Unprincipled speculators are making billions every day by betting on a Greek default,” said Mr Papandreou in a speech in Washington, DC.

The wheels of policy are now turning. The European Commission has said it will examine the case for banning “naked” sovereign CDSs, in which buyers of protection on government debt do not actually own any of the underlying bonds. A European ban would not do much good on its own: trading would simply move to other markets. The official American response to Mr Papandreou has been tepid. But the issue is on the G20’s radar. The Financial Stability Board, which is co-ordinating international financial reform, thinks that tighter rules are likely.

Some reform of the market for sovereign CDSs is needed. Like other credit-default swaps, there is a strong case for moving these over-the-counter instruments on to central clearing-houses, which stand between buyers and sellers and reduce counterparty risk. Sensible changes of this kind are already in train in Europe and America. But the idea that speculators are to blame for Greece’s troubles is wrong-headed, and the solution of banning naked sovereign CDSs is even worse.

First, the diagnosis. The case against buyers of sovereign CDSs is that by driving up the price of insuring against default, they cause spreads on underlying cash bonds to widen, making borrowing more expensive and bringing default—and a big payout—closer. That drives up the price of insurance further, setting the cycle in motion again. The problem with this analysis is that the tail is far too puny to wag the dog. There are $9 billion of net Greek sovereign CDSs outstanding, compared with more than $400 billion of Greek government bonds. It is a similar story in other countries under pressure. According to the Bank for International Settlements, the proportion of net CDS positions to government debt is highest in Portugal, at just 5%. Moreover, CDS and bond prices have tended to move together, rather than one driving the other.

Naked self-interest
Even so, surely it cannot be right for people who do not own any government debt to profit from sovereign distress? Actually, it can. When states get into trouble, other borrowers suffer too: taxes rise, economies slow. So investors in Greek companies have legitimate reason to protect themselves against Greek sovereign risk. If they cannot, they will simply charge companies a higher risk premium instead. Buyers of protection also have to find sellers—banks, say, or hedge funds. But sellers want to offload their risk as well. If sellers are not allowed to buy protection themselves, investors will find it harder to hedge. If so, banning naked CDSs could end up making it more expensive for governments to borrow.

There is a long tradition of shooting messengers who bring bad news. But the simple explanation for rising borrowing costs—Greece’s finances are tatty—makes far more sense than the complex, politically convenient one. The sovereign-CDS debate is a smokescreen to obscure an unpalatable truth.
(The Economist, March 11th 2010)


Poison Ivy
Not so much palaces of learning as bastions of privilege and hypocrisy

AMERICAN universities like to think of themselves as engines of social justice, thronging with “diversity”. But how much truth is there in this flattering self-image? Over the past few years Daniel Golden has written a series of coruscating stories in the Wall Street Journal about the admissions practices of America's elite universities, suggesting that they are not so much engines of social justice as bastions of privilege. Now he has produced a book—“The Price of Admission: How America's Ruling Class Buys Its Way into Elite Colleges—and Who Gets Left Outside the Gates”—that deserves to become a classic.

Mr Golden shows that elite universities do everything in their power to admit the children of privilege. If they cannot get them in through the front door by relaxing their standards, then they smuggle them in through the back. No less than 60% of the places in elite universities are given to candidates who have some sort of extra “hook”, from rich or alumni parents to “sporting prowess”. The number of whites who benefit from this affirmative action is far greater than the number of blacks.

The American establishment is extraordinarily good at getting its children into the best colleges. In the last presidential election both candidates—George Bush and John Kerry—were “C” students who would have had little chance of getting into Yale if they had not come from Yale families. Al Gore and Bill Frist both got their sons into their alma maters (Harvard and Princeton respectively), despite their average academic performances. Universities bend over backwards to admit “legacies” (ie, the children of alumni). Harvard admits 40% of legacy applicants compared with 11% of applicants overall. Amherst admits 50%. An average of 21-24% of students in each year at Notre Dame are the offspring of alumni. When it comes to the children of particularly rich donors, the bending-over-backwards reaches astonishing levels. Harvard even has something called a “Z” list—a list of applicants who are given a place after a year's deferment to catch up—that is dominated by the children of rich alumni.

University behaviour is at its worst when it comes to grovelling to celebrities. Duke University's admissions director visited Steven Spielberg's house to interview his stepdaughter. Princeton found a place for Lauren Bush—the president's niece and a top fashion model—despite the fact that she missed the application deadline by a month. Brown University was so keen to admit Michael Ovitz's son that it gave him a place as a “special student”. (He dropped out after a year.)

Most people think of black football and basketball stars when they hear about “sports scholarships”. But there are also sports scholarships for rich white students who play preppie sports such as fencing, squash, sailing, riding, golf and, of course, lacrosse. The University of Virginia even has scholarships for polo-players, relatively few of whom come from the inner cities.

You might imagine that academics would be up in arms about this. Alas, they have too much skin in the game. Academics not only escape tuition fees if they can get their children into the universities where they teach. They get huge preferences as well. Boston University accepted 91% of “faculty brats” in 2003, at a cost of about $9m. Notre Dame accepts about 70% of the children of university employees, compared with 19% of “unhooked” applicants, despite markedly lower average SAT scores.

Why do Mr Golden's findings matter so much? The most important reason is that America is witnessing a potentially explosive combination of trends. Social inequality is rising at a time when the escalators of social mobility are slowing (America has lower levels of social mobility than most European countries). The returns on higher education are rising: the median earnings in 2000 of Americans with a bachelor's degree or higher were about double those of high-school leavers. But elite universities are becoming more socially exclusive. Between 1980 and 1992, for example, the proportion of disadvantaged children in four-year colleges fell slightly (from 29% to 28%) while the proportion of well-to-do children rose substantially (from 55% to 66%).

Mr Golden's findings do not account for all of this. Get rid of affirmative action for the rich, and rich children will still do better. But they clearly account for some differences: “unhooked” candidates are competing for just 40% of university places. And they raise all sorts of issues of justice and hypocrisy. What is one to make of Mr Frist, who opposes affirmative action for minorities while practising it for his own son?

The poor left behind

Two groups of people overwhelmingly bear the burden of these policies—Asian-Americans and poor whites. Asian-Americans are the “new Jews”, held to higher standards (they need to score at least 50 points higher than non-Asians even to be in the game) and frequently stigmatised for their “characters” (Harvard evaluators persistently rated Asian-Americans below whites on “personal qualities”). When the University of California, Berkeley briefly considered introducing means-based affirmative action, it rejected the idea on the ground that “using poverty yields a lot of poor white kids and poor Asian kids”.

There are a few signs that the winds of reform are blowing. Several elite universities have expanded financial aid for poor children. Texas A&M has got rid of legacy preferences. Only last week Harvard announced that it was getting rid of “early admission”—a system that favours privileged children—and Princeton rapidly followed suit. But the wind is going to have to blow a heck of a lot harder, and for a heck of a lot longer, before America's money-addicted and legacy-loving universities can be shamed into returning to what ought to have been their guiding principle all along: admitting people to university on the basis of their intellectual ability.
(The Economist, September 21st 2006)


Entlaßt die Experten

Es dürfte mittlerweile keinem aufmerksamen Menschen entgangen sein: Die Prognosen der Wirtschaftsforschungsinstitute sind ungefähr so zuverlässig wie die Orakel von Sterndeutern und Kaffeesatzlesern. Monat für Monat wird das Ritual unerschütterlich wiederholt. Man verkündigt die frohe Botschaft, wir seien bereits aus der Sohle des Tränentals heraus, um im gleichen Zug zu erklären, daß sich die letzte Vorhersage als falsch erwiesen hat und „nach unten revidiert” werden muß. Erneut werden Daten und Indizes prophezeit, nach denen sich die Entscheidungen der Politik und das Verhalten der Wirtschaftsakteure richten sollen. Bis zur nächsten Korrektur.

Mehr noch als ihr chronisches Versagen verblüffen die Erklärungen der Experten dafür. Wieso wurden die Konjunkturprognosen widerlegt? Weil die Konjunktur sich schlechter entwickelt hat als angenommen. Man bewundere die Seriosität des Arguments: Es ist, als ob ein Meteorologe einen sonnigen Tag in Brandenburg vorhersagte, um am nächsten Tag zu erklären: „Zwar hat es pausenlos geregnet, doch dies bedeutet keineswegs, daß meine Prognose falsch war. Nur kamen unerwartet Regenwolken aus Polen gezogen und verschoben den Sonnenschein ein wenig. Aber die Tendenz geht Richtung Sommer.” Wenn nun angekündigt wird, daß die letzte Konjunkturprognose wegen des hohen Ölpreises nach unten korrigiert werden müsse, drängt sich die Frage auf: War das voraussehbar? Wenn nein, dann nützt die Vorhersage nichts, wenn ja, dann haben die Experten versagt.

Eine weitere Ad-hoc-Erklärung lautet: Die Daten sind gut, aber die Wirtschaftssubjekte haben sie noch nicht als solche wahrgenommen und verhalten sich weiterhin, als ob sie schlecht seien, was sie wiederum verschlechtert. Wer hätte das gedacht? Nicht die Nürnberger Gesellschaft für Konsumforschung jedenfalls, die Monat für Monat einen Null-Komma-etwas-Anstieg des „Konsumklimas” vorgaukelt, um kurz daraufhin festzustellen: „Noch fehlt den Bürgern der Glaube an den Aufschwung.” Ohne Glaube geht nichts.

Im Grunde wird also das Scheitern wie folgt begründet: Hätten sich nur die Bürger gemäß den Prognosen verhalten, dann wären die Prognosen gültig gewesen. Im Himmel der Ökonomie schweben unbefleckte Zahlen, Kurven und Indizes, die sich harmonisch und voraussehbar verhalten, doch auf Erden handeln Menschen und, ob Unternehmer, Investoren, Lohnabhängige oder Almosenempfänger, sie machen alles falsch, stellen sich quer zur ökonomischen Rationalität.

Man könnte glauben, daß der handelnde Mensch Hauptgegenstand der Wirtschaftswissenschaft sei, doch er wird als Störfaktor jener mechanischen Gesetzmäßigkeit angesehen, die das Weltgeschehen regelt. An dieser Trennung zwischen Reinheit und Sünde ist das fundamentalistisch-religiöse Moment der Ökonomie zu erkennen.

Es wäre nun ein Irrtum, einzelnen Experten oder Instituten vorzuwerfen, sie seien unzureichend kompetent, in die Zukunft zu blicken. Die Ursache sitzt tiefer, nämlich darin, daß die Ökonomie trotz ihrer Ansprüche keine positive Wissenschaft ist und sein kann. Der Würzburger Wirtschaftsprofessor Karl-Heinz Brodbeck bringt zwei prinzipielle Gründe für das prognostische Scheitern vor. Erstens werde das, was Konjunktur genannt werde, aus unzähligen Phänomenen gewoben, die weltweit interagierten und von niemandem überblickt werden könnten. Dies um so mehr, als das Wirtschaftsfeld auch und vor allem von Parametern beeinflußt werde, die von außen her kämen.

Der zweite Grund: Experten seien keine Beobachter eines ihnen äußerlichen Gegenstands, sondern selbst Teil des Gegenstands. Prognosen sind nicht neutral. Wenn ich zum Beispiel ankündige, daß eine Firma demnächst insolvent wird, und mir Glauben geschenkt wird, dann beeinflusse ich das Verhalten von Kunden, Lieferanten und Aktionären, und die Firma gerät erst recht in Schwierigkeiten. Ich habe die Tatsache nicht vorhergesagt, sondern mitverursacht. Wirtschaftssubjekte reagieren auf eine Vielzahl von Reizen, darunter auch Prognosen und maßgebliche Meinungen. Daher meint Brodbeck: „Die Anwendung der Theorie ist ihre Falsifikation.”

Gerade diese Eigenschaft erklärt, warum Prognosen, obwohl systematisch falsch, eine zentrale Stelle im Wirtschaftsgeschehen einnehmen. Auf die Bestätigung kommt es nicht an. Ihre Funktion ist nicht prädiktiv, sondern normativ. Sie machen keine wissenschaftlichen, sondern politische Aussagen. Hinter der Scheinobjektivität mathematischer Modelle versuchen bestimmte Akteure, die Handlungen anderer Akteure zu beeinflussen.

Wenn die „Erwartungen” der Haushalte veröffentlicht werden, dann wird damit gerechnet, daß jeder Haushalt sein Verhalten dem angekündigten Konsens anpassen wird. Zudem beschränken sich Experten nicht darauf, leere Vorhersagen zu liefern. Sie beraten auch Entscheidungsträger. Dabei dürfen ihre schulmeisterlichen Empfehlungen um so radikaler sein, als sie weder auf Wähler noch auf Belegschaften Rücksicht nehmen müssen.

Der gesellschaftliche Stand der Wirtschaftsexperten entspricht dem des mittelalterlichen Klerus. Kein Staatsmann kann ohne ihre Salbung regieren. Sie sind die Hüter des Glaubens. Daher vermischt sich in ihrem Charakterbild die Süffisanz des Prälats mit dem Eifer des Missionars. Ihr unantastbares Dogma heißt Wachstum. Daran wird alles gemessen. Vergessen sind die alten Mahnungen, Wachstum könne nicht ewig fortgesetzt werden, ohne an katastrophale Grenzen zu stoßen. Mittlerweile haben sich nicht nur die Grünen, sondern auch viele Globalisierungsgegner zum Dogma bekehrt. Und doch reicht es, nach China zu blicken, um die zerstörerischen Effekte starken Wachstums festzustellen.

Aber die heilige Kuh darf nicht angetastet werden, weil sie einen zweiten Glaubenssatz nährt, nämlich, daß Arbeitsplätze erst von zwei Prozent Wachstum an entstehen können. Und wir wissen ja: Ganz gleich, ob sie zu etwas nützen und genug bezahlt werden oder nicht, Arbeitsplätze sind das höchste moralische Gut. Da sind wir wieder im magischen Reich der Prognosen angelangt, wogegen die Erfahrung keinen Einwand erheben darf. Daß Rekordgewinne vor Massenentlassungen nicht schützen, ist mittlerweile bekannt. Selbst wenn das Wachstumswunder also geschehen würde, ahnen wir, wie dann argumentiert würde: Es ist noch zu früh, um die Erträge auszuschütten. Schließlich löst sich die vertrackte Wirtschaftstheologie in simple Gebote auf: Unternehmen und Spitzenverdiener sollen von Steuern und sonstigen gesellschaftlichen Verpflichtungen befreit werden. Beschäftigte sollen weniger Geld und längere Arbeitszeiten hinnehmen. Um auf solche Anweisungen zu kommen, ist es nicht nötig, ein Studium der Ökonomie absolviert zu haben.

Das Berliner DIW, das Kölner IW, das Hallenser IWH, das Münchner ifo-Institut, nicht zu vergessen die fünf weißbärtigen „Wirtschaftsweisen” - all diese Konvente und Konzile bilden eine einheitliche Gesellschaft zur Verbreitung des Glaubens. Ihre einzig erkennbare Leistung ist die Massenbeeinflussung des Verhaltens. Die gute Nachricht ist aber, daß die Wirkung immer häufiger ins Gegenteil umschlägt. Der pseudowissenschaftliche Firnis ist rissig geworden. Zuviel falsche Prophezeiungen verderben das Vertrauen. Geben Experten eine Prognose bekannt, wird ihr Widerruf bereits erwartet. Kündigen sie einen neuen Reformplan an, wird mit weiterer Verschlechterung gerechnet. Die Priester der Ökonomie werden heute nicht ernster genommen als früher SED-Funktionäre beim Ergebnisbericht des Fünfjahresplans. Von immer breiteren Teilen der Bevölkerung wird die endlose Schleife ihres Geredes nur noch als störendes Geräusch aufgenommen. Daher sollte man die Wirtschaftsexperten schonen. Sie sind die besten Agenten im Dienst der Demotivation.
(Guillaume Paoli, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19 Aprile 2005)


Aburrimos a las ovejas más aburridas

Estamos viviendo, desde hace ya algún tiempo, una guerra económica entre tres bloques: de un lado, los países del área del Pacífico (especialmente, pero no exclusivamente, India, China y Japón); de otro, los EE.UU. más Canadá y Méjico; y por fin la Europa de los 25, que seguirá creciendo en número de países hasta agotar la cantera europea. Hagamos un resumen de la situación de los tres bloques y una predicción sobre vencedores y vencidos.

. El área del Pacífico se ha convertido en la zona de mayor crecimiento económico y en su consecuencia en la de mayor atractivo para las inversiones mundiales. Hasta ahora China era -y seguirá siendo- la estrella del espectáculo con una media del 10 por ciento de crecimiento durante dos décadas, un crecimiento esplendoroso que va acompañado por un buen desarrollo científico y tecnológico y protegido por un realismo político verdaderamente sofisticado que está poniendo en marcha una radical transformación de la sociedad para prepararla a la auténtica libertad económica y política. A China se le une ahora con fuerza la mayor democracia del mundo, India, un país de más de mil millones de habitantes, que ha entrado en el desarrollismo económico acelerado con un crecimiento del 10,4 por ciento en el 2003 y con una inteligente política orientada a la atracción de centros y «hubs» tecnológicos en razón, al parecer, de la especial y superior capacidad de sus ciudadanos para estas tareas. Mucha gente opina que a medio plazo India será más importante que China en cuanto a acción económica. Finalmente, Japón, con su democracia asentada, está empezando a salir del túnel de una extraña depresión económica que ha durado más de una década y que ha forzado una reestructuración absoluta de su sistema financiero, cambios de fondo en el modelo empresarial y asimismo cambios sociológicos muy significativos, y en especial en cuanto al papel de la mujer y de la juventud. La recuperación de Japón es un dato de la mayor trascendencia por cuanto se trata de la segunda economía del mundo con un PIB actual que supera al de India y China juntas. La sinergia entre los tres países puede producir resultados espectaculares por cuanto son tres economías de alta productividad con costes laborales altos en Japón y muy bajos -más bajos que en los nuevos países europeos- en India y China. Hay que tener en cuenta además que en el área del Pacífico juegan otros países que pueden aportar nuevos incentivos, como es el caso de Malasia (con un crecimiento del 7,6 por ciento), Singapur (7,5 por ciento), Filipinas (6,4 por ciento) y Corea (5,3 por ciento). Es por estas razones por las que un economista americano ha asegurado que a partir de ahora, de cada dólar que se invierta fuera del país, 75 centavos irán al área del Pacífico y 25 centavos al resto del mundo. Para los EE.UU. la agenda del Pacífico es, en efecto, mucho más importante que la de Europa en todos los sentidos y ese dato debe preocuparnos seriamente.

. Los EE.UU. son la primera potencia del mundo, una auténtica potencia hegemónica. Es un país que, para mejor proteger su seguridad, ha decidido pasar de la mera influencia a un liderazgo activo y que ya ha declarado oficial y públicamente el objetivo concreto de mantener su abrumadora supremacía militar, científica, tecnológica, económica y cultural sobre Europa y el resto del mundo. Están, desde luego, en perfectas condiciones para lograrlo por más que tengan que ir superando algunas incompetencias clásicas, sobre todo en política exterior, unas incompetencias que la administración actual ha llevado a niveles excesivos, a niveles verdaderamente intolerables. Tanto si es reelegido el presidente Bush como si ganara el senador Kerry, los EE.UU. irán mejorando aceleradamente en esta materia porque ya han empezado a darse cuenta -hay pocos pero buenos signos- de que el poder blando que propugna Joseph Nye es mucho más rentable y eficaz que el poder duro, prepotente y soberbio que han impuesto hasta ahora los llamados «neocons», un grupo francamente peligroso que defiende un americanismo agresivo, militante, fanáticamente patriótico, xenófobo y de inspiración religiosa que tiene muchas similitudes con el propio fundamentalismo islámico. Los EE.UU. acabarán siendo, sin duda, los mejores líderes de una globalización con graves déficits democráticos y jurídicos y se convencerán de que para hacerla viable será necesario -y muy conveniente para ellos mismos- la existencia de un derecho y unas instituciones globales eficaces.

. Europa no está pasando ciertamente por su mejor momento. La propia idea de Europa está en cuestión porque los líderes políticos no son capaces de darle a esa idea el atractivo, el «sexy» que debe tener. Lo hemos visto en las recientes elecciones y lo volveremos a ver en el referéndum constitucional. A esta crítica general deben añadirse los problemas concretos siguientes:

- Una natalidad en decadencia (España encabeza esta lista) que, a pesar de la inmigración, está produciendo un envejecimiento de la población que a su vez reduce inevitablemente la vitalidad y el dinamismo de la sociedad. Ese no es el caso de los EE.UU. que mantiene el índice de 2.1 hijos por mujer.

- Una inmigración poco controlada y asumida, generadora de conflictos étnicos crecientes que necesita de políticas de integración muy costosas y muy difíciles de diseñar.

- Sectores públicos, en general sobredimensionados, que, en varios países, en vez de decrecer, aumentan en número y en incompetencia y que reducen gravemente el ámbito del mercado.

- Un eje franco-alemán decisivo para la historia y el futuro de Europa, que está afrontando una grave crisis económica que va a debilitar su capacidad de liderazgo y que va a requerir una reestructuración y una reducción importante del gasto social, lo cual puede generar en ambos países profundas y duraderas tensiones internas.

- Una Gran Bretaña que nunca acabará de decidir su integración plena en Europa y que conservará su mercado de capitales, su moneda y su relación privilegiada con los EE.UU. y con la Commonwealth.

- Unos nacionalismos intensos que generan deplorables políticas defensivas en forma de excepciones tanto culturales como económicas y sociológicas.

- Un mercado que está muy lejos de ser un mercado único tanto por el peso del sector público como por las políticas proteccionistas, directas e indirectas, visibles e invisibles.

- Una política agraria cada vez más absurda y más indefendible.

- Una incapacidad absoluta para poner en marcha políticas comunes en temas básicos como defensa, política exterior e inmigración.

- Un antiamericanismo que, aunque esté causado en parte por los propios americanos, hace cada vez más difícil recuperar el diálogo Atlántico y favorece el del Pacífico.

- Un cansancio histórico profundo y un grave descenso de los niveles éticos.

Con este pesado bagaje a cuestas -aún aceptando que se trata de una descripción demasiado pesimista- el futuro de Europa, entre una América claramente superior y un área del Pacífico con productividad y crecimiento imparables, es como mínimo inquietante. Tendremos que hacer bastante más y sobre todo algo muy distinto de lo que estamos haciendo para que nuestra bella y culta Europa recupere el realismo, el vigor moral y la capacidad de acción que necesita en esta difícil coyuntura. Vamos a ver si el núcleo duro ibérico (Barroso, Borrell, Solana y Almunia) es capaz de animar el cotarro. Siguiendo así -es frase de un funcionario español en Bruselas- «vamos a aburrir a las ovejas más aburridas». Y además perder la guerra.
(Antonio Garrigues Walker, ABC, 31 de julio de 2004)