Die
freie Wissenschaft ist bedroht
Fördert die mächtige Deutsche
Forschungsgemeinschaft (DFG) den Ideenklau und die Selbstbedienung?
Transparenz ist für sie ein Fremdwort. Dieses Monopol ist
bedenklich.
(Roland Reuss und Volker Rieble,
Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18. Oktober 2011)
Nobel und frei
(Hildegard Kaulen, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5. Oktober 2011)
Die sanfte Steuerung der Bildung
Handelt es sich um eine Scheindemokratie, die den
Volkswillen als zufällig und lenkbar ansieht? Zu den
Durchsetzungsstrategien von Pisa, Bologna & Co.
(Jochen Krautz, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29. September 2011)
The
Lairds of Learning
How did academic publishers acquire these feudal
powers?
(George Monbiot, Guardian, 30th August 2011)
Flachforscher
Medizinische Doktorarbeiten haben in der Wissenschaft
einen besonders schlechten Ruf – leider zu Recht. Jetzt reagieren die
Universitäten.
(Martin Spiewak, Die Zeit, 29. August 2011)
Mathematicians' self-confidence and
responsibility
(F. Thomas Bruss, Newsletter of the European Mathematical Society, March 2011)
Annoiati e contenti
Il divertimento forzato è roba da carcerati
del tempo. Meglio una noia calcolata, ben diversa da ozio e
pigrizia
Se volete un consiglio per un'attività estiva, eccolo:
annoiatevi. Provare ad annoiarsi è più difficile che tentare di
divertirsi. Bisogna saper resistere alla fretta, agli amici, alle
occasioni e ai cattivi pensieri, uno su tutti: sto sprecando il mio
tempo. Invece chi si annoia oggi si prepara a divertirsi domani.
Il divertimento forzato è roba da carcerati del tempo. Fare il
bagno nel mare una notte è meraviglioso; fare il bagno nel mare
tutte le notti è banale (umido e stancante). Aspettare l'alba
una volta con gli amici, e bere un cappuccino all'apertura dei bar,
è memorabile. Fare l'alba tutti i giorni è una noiosa
manipolazione dei fusi orari: uno vive sull'orario di Fort Lauderdale
anche se è in vacanza a Forte dei Marmi. Il cappuccino lo fanno
sia qui che là.
Le transumanze serali dei condannati al divertimento, in questa
rotonda estate 2010, muovono a compassione. Stessi aperitivi, stesse
frasi («Ehi raga, e adesso?»), stesse sigarette, stessi
posti, stessi orari, stessa aria da comparse pubblicitarie. Solo gli
adolescenti hanno la facoltà dell'uniformità; dai
diciott'anni in poi si ha il dovere d'inventarsi almeno il tempo
libero, visto che il resto è spesso obbligato.
L'Italia stesa al sole offre molte possibilità. Annoiarsi
-senza esagerare- è una bella soluzione. Un modo sano per
ripristinare un circolo virtuoso: mi annoio, mi vien voglia di
divertirmi, mi diverto, mi stanco, mi riposo, mi annoio. Leggete Il
tempo breve di Marco Niada (Garzanti): è un antidoto al
veleno della frenesia.
La serata perfetta non è un diritto costituzionale, ma il
frutto di pazienza, intuizione e combinazione. Non è neppure
qualcosa che si compra: i soldi, in questa materia, sono utili, ma non
garantiscono. Se avete dubbi provate a frequentare i luoghi dei
ricchissimi: chissà cosa darebbero per divertirsi come a
vent'anni, con una vespa e una birra.
Il divertimento continuo e obbligatorio sta provocando disastri. Per
compensare l'eccitazione che scende si cercano stimoli sempre
maggiori: più posti, più strada, più forte,
più rischi e meno scrupoli. Prima o poi, venuta a noia anche
l'orrenda equazione nordeuropea (sono ubriaco = mi diverto), arriva
l'amico dell'amico che ha polvere in tasca (e sabbia al posto del
cervello): e qualcuno, invece d'insultarlo, aspetta il suo turno.
La medicina, dicevo, è la noia. Una noia calcolata e coltivata,
troppo razionale per essere ozio e troppo occasionale per diventar
pigrizia. Aspettare le cinque del pomeriggio nella penombra dietro una
persiana, con un libro e un marito, entrambi così
così. Curare il giardino, quand'è chiaro che è
lui a curare noi. Lavare la macchina pensando al primo sorso di
birra. Guardare, dall'alto di un albergo o una collina, l'ingannevole
ordine di una spiaggia, il luogo dove l'Italia scende nel mare, che le
perdona quanto ha combinato più su.
(Beppe Severgnini, Corriere della Sera, 22 luglio 2010)
Dante, ma chi è?
I tagli e le scelte della politica hanno provocato il crollo
dell'istruzione. Scuole e università sono in crisi. Così si perde
la sfida alla modernità
L'economista Luca Bianchi ha capito tutto quando
il falegname gli ha rivelato le sue angosce di padre. "Eravamo in
cucina, lui stava armeggiando con il cacciavite. Parlavamo, lo
conosco da tanto. Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto:
'Dotto', sono preoccupato per mio figlio: vuole iscriversi a
Medicina e diventare chirurgo. Invece di prendere in mano il
negozio e guadagnare minimo minimo 3-4 mila euro al mese, vuole
fare il disoccupato, l'infermiere se gli va bene. Dotto', glielo
dica lei che è meglio essere ignoranti e ricchi piuttosto che
intelligenti ma poveri in canna'. Ecco: il mio falegname mi ha
fatto capire meglio di un trattato specialistico perché l'Italia è
sempre più analfabeta: semplicemente, studiare non conviene più".
L'artigiano che ha capovolto in un amen il mito anni '60 del
'figlio dottore' è in buona compagnia: dal Veneto alla Sicilia le
famiglie hanno intuito da un pezzo che la cultura, lo studio, la
laurea, le capacità intellettuali, non rendono come accade nel
resto d'Europa. "Non a caso stanno limitando gli investimenti
formativi sulla prole", aggiunge l'esperto: "Nel 2008 e nel 2009 le
iscrizioni negli atenei sono crollate".
Gli italiani stanno diventando sempre più poveri, sia nello spirito
che nel portafogli. I ricercatori evidenziano che l'incapacità a
far di conto o di azzeccare un congiuntivo, l'impossibilità di
parlare decentemente inglese o brevettare un'invenzione significa
perdere la battaglia per rimanere competitivi sul mercato mondiale.
Ma gridano nel deserto. In Italia la ricerca e l'eccellenza non
trovano più spazio nel mondo del lavoro e la qualità non è
premiante nemmeno nelle università e nelle scuole. Le nostre
imprese, come dimostrano le ricerche di Excelsior Unioncamere,
assumono al 90 per cento solo diplomati e personale con la licenza
media o elementare, mentre gli investimenti sui cervelli restano
asfittici. I governi tagliano le spese legate all'istruzione come
fossero foglie morte da cimare, mentre l'Italia potrà mantenere
posizioni di leadership e un livello di ricchezza vicino agli altri
partner del G7 solo puntando sulla conoscenza, il plusvalore del
capitalismo postindustriale su cui fanno affidamento i paesi
avanzati. "Difficile dire se sia nato prima l'uovo o la gallina, se
le responsabilità siano di un popolo con un basso livello
d'istruzione o di una classe dirigente impreparata e
irresponsabile", dice a 'L'espresso' Giacomo Vaciago, ordinario di
politica economica alla Cattolica, "ma una cosa è certa. Se non si
inverte il trend, il futuro sarà assai peggiore di un presente già
nero".
Nella nazione che ha dato i natali a
Dante e Leopardi, nell'anno di grazia 2010 quasi un milione di
persone non sa prendere una penna in mano o distinguere una lettera
da un'altra. Oltre 5 milioni di concittadini non hanno alcun titolo
di studio, 13 milioni solo quello di quinta elementare. Tullio De
Mauro ha disegnato più volte i confini del disastro: "Il 25 per
cento degli studenti con la licenza media non sa né leggere né
scrivere, né fare di conto". Il linguista ricorda due recenti
indagini comparative svolte in vari paesi: in quanto a ignoranza,
solo gli abitanti dello Stato del Nuevo Leon, in Messico, ci
battono. Sembra incredibile, ma il risultato è logica conseguenza
del nostro sistema formativo. Secondo l'Eurostat, nella classifica
dei titoli minimi di studio sui 27 membri della Ue siamo
quart'ultimi, solo Spagna, Malta e Portogallo fanno peggio.
Identiche posizioni per la classifica sui giovani che abbandonano
prematuramente gli studi: due anni fa un ragazzo su cinque si è
'ritirato' dalla scuola superiore.
Il panorama non migliora se si parla di
consumi culturali. Non ci è mai piaciuto spendere molto per cinema,
teatro, concerti, libri o giornali. Le file ai festival letterari o
filosofici sono passioni riservate a poche élite, la foglia di fico
di un popolo che investe in ricreazione 'intelligente' solo gli
spiccioli. I mecenati esistono ancora, ma preferiscono accostare il
loro nome al calcio: con il miliardo speso dai Moratti per
rinforzare l'Inter si potevano finanziare per tre anni tutti gli
spettacoli dal vivo prodotti nel Paese. Se gli italiani investono
in cultura il 6,9 per cento del loro budget mensile (Eurostat
2006), in percentuale i finlandesi, i danesi e gli inglesi spendono
quasi il doppio. Solo i rumeni e i lituani sono più tirchi di noi.
Dal 2000 al 2007 secondo l'Istat in tutte le regioni la cultura ha
perso appeal, e ormai solo l'Emilia-Romagna si avvicina alla media
europea. Le altre tabelle sono logica conseguenza: siamo tra le
nazioni che leggono meno libri (per i maschi, in particolare, è
praticamente un oggetto sconosciuto), i quotidiani sono acquistati
da un gruppo di fan (dati alla mano è più sensato aprire un'edicola
in Bulgaria che in Basilicata), non sappiamo nulla della nostra
storia e delle nostre tradizioni. Persino religiose: secondo
un'indagine Eurisko i cattolicissimi italiani non hanno mai letto
la Bibbia, non conoscono la differenza tra Nuovo e Antico
Testamento, né chi era Mosè, per non parlare della confusione che
regna quando bisogna indicare i nomi dei quattro evangelisti.
Anche se possediamo il più grande giacimento di opere d'arte
del mondo i musei tricolori sono, ça va sans dire, tra i meno
visitati del mondo. La rivista 'The Art Newspaper' qualche giorno
fa ha elencato la lista dei musei e delle mostre più popolari del
2009: primo il Louvre, secondo il British di Londra, poi il
Metropolitan di New York, solo 21esimi gli Uffizi di Firenze,
lontanissimi pure dal museo coreano a Seul. I Musei Vaticani si
piazzano al settimo posto grazie all'attrazione esercitata dalla
Cappella Sistina di Michelangelo. "Ma l'aspetto davvero
sconfortante è un altro", spiega il direttore Antonio Paolucci,
storico dell'arte ed ex ministro dei Beni culturali: "La gente che
ci viene a visitare è sempre più incolta, teledipendente, non sa
scrivere mezza cartella senza fare errori, ed è incapace di capire
praticamente nulla di ciò che vede. Siamo nel pieno di un black out
semantico, il popolo regredisce perché ha perso pure quelle
informazioni che aveva ereditato dalla tradizione orale: chieda a
qualcuno chi erano i re di Roma, gli Orazi e i Curiazi, Giulio
Cesare. Prima tra gli italiani la storia era patrimonio comune, ora
non la masticano nemmeno i laureati".
Eppure la politica tratta la
questione come fosse un problema marginale, secondario. Si litiga
sulla giustizia, sulle riforme, sulle tasse, ma alla parola scuola
e cultura si mette subito mano alla forbice. I tagli alla spesa
pubblica, negli ultimi dieci anni, hanno interessato soprattutto
formazione obbligatoria, università e ricerca. Il budget destinato
all'istruzione, già molto più basso di paesi come Danimarca,
Francia, Cipro e Slovenia, dal 2003 al 2007 è calato costantemente,
almeno secondo i dati del ministero dello Sviluppo economico. Per
migliorare il livello tecnologico delle aziende riusciamo a fare
peggio, spendendo solo 1,2 per cento del Pil: meno della metà di
Germania, Francia e Regno Unito. Il governo negli ultimi due anni
ci ha messo il carico da novanta, facendo a pezzi quello che
rimaneva della scuola, bloccando le assunzioni dei ricercatori,
tagliando di qualche centinaio di milioni il Fus, il fondo unico
per lo spettacolo. "Esigenze di bilancio", ripete Tremonti, ma
misure draconiane simili non hanno confronti negli altri paesi
colpiti dalla crisi.
L'impoverimento culturale, d'altronde, va in parallelo con quello
del Parlamento e, più in genere, della nostra classe dirigente:
l'Eurostat segnala che meno di un terzo delle nostre élite ha
concluso l'università, rispetto al 65 per cento della Germania e al
58 della Francia. Leggendo una ricerca curata da Giovanni Sartori
si scopre che nel 1909, in seguito all'ultima elezione a suffragio
ristretto, i dottori eletti rappresentavano il 79 per cento della
Camera, quota simile a quella registrata dall'assemblea costituente
e dai Parlamenti nelle prime legislature. Dagli anni '80, ci
ricorda il costituzionalista Michele Ainis nel libro 'La cura',
cambia tutto: i laureati diminuiscono a vista d'occhio, e per la
prima volta diventano presidenti del Consiglio leader che non sono
arrivati a discutere la tesi (Craxi prima, D'Alema poi). La
competenza specifica e le conoscenze tecniche non sono più
considerate decisive per le posizioni apicali: Romano Prodi chiama
18 sottosegretari e cinque ministri senza laurea, Ottaviano Del
Turco diventa ministro delle Finanze nel 2000 avendo in tasca la
licenza media, Livia Turco si insedia al dicastero della Salute
senza sapere nulla di medicina. Il trionfo degli ignoranti in
politica viene svelato dalle gaffe di Berlusconi (ha una laurea in
legge, ma per lui i fondatori di Roma sono "Romolo e Remolo") e
grazie a inchieste come quella delle 'Iene' scopriamo deputati di
sinistra che piazzano la Rivoluzione francese nel '600, senatori di
destra che non sanno chi ha dipinto la 'Gioconda', esponenti della
commissione Esteri certi che Abu Mazen sia il presidente dell'Iran.
Persino un professore esimio come Pancho Pardi ignora chi sia il
Dalai Lama ("Non so, il capo degli indù?").
In un quadro simile, non
sorprende che parlamentari e ministri non si affannino a presentare
decreti e disegni di legge per potenziare gli investimenti pubblici
destinati al sapere, né che Regioni come Campania e Lazio abbiano
speso milioni di euro in corsi per veline, tatuatori ed esperti di
piercing. Le responsabilità, però, vanno divise. Anche il mondo del
lavoro, e in particolare il nostro sistema imprenditoriale, punta
sulle braccia più che sulla testa. I settori ad alto valore
aggiunto, come l'high tech e l'elettronica, non sono mai decollati.
La chimica è praticamente scomparsa, la farmaceutica è residuale,
persino la Telecom rischia di finire in mani spagnole, mentre
l'eccellenza si rifugia nei soliti marchi di punta del tessile e
della meccanica. "Non dimentichiamo che il nostro tessuto
produttivo è composto soprattutto da piccolissime aziende", ragiona
Daniele Marini, direttore della Fondazione Nord Est, "parliamo di
ditte composte da tre, quattro dipendenti che spesso non hanno la
forza per rinnovarsi come richiede la congiuntura. Bisogna puntare
di più sull'innovazione, sulle nuove tecnologie, sui nuovi modelli
di organizzazione. Snobbando la cultura, poi, affossiamo quello che
dovrebbe essere il primo settore nazionale: il turismo".
L'indagine Excelsior Unioncamere del 2009 evidenzia che le aziende,
su 523 mila posti vacanti, prevedono di assumere solo 62 mila
laureati. Poco più del 10 per cento, quota che precipita quando
l'impresa è sotto i dieci dipendenti. Secondo i questionari, oltre
la metà degli imprenditori considera il titolo di studio "poco o
per niente importante". Guarda un po', in Italia gli addetti alla
ricerca e sviluppo sono un terzo di quelli impiegati in
Scandinavia, la metà di coloro che lavorano in Germania, Francia e
Inghilterra. Il sottoutilizzo è diventato la regola: gli ingegneri
fanno i tecnici, gli architetti i geometri, gli avvocati gli
assicuratori. "Laurearsi significa emigrare", conclude Bianchi,
"gli studenti più bravi del Centro-Nord lo fanno in massa, e alla
fine della fiera il saldo è paradossale: stiamo esportando forza
lavoro superqualificata, mentre importiamo immigrati quasi sempre
con qualifiche basse".
Ovviamente, il trionfo
dell'ignoranza non sarebbe possibile se scuole e università
facessero il loro mestiere. "Quando le imprese assumono", ricorda
Vaciago, "poi sono quasi sempre costrette a proseguire la
formazione. Dagli atenei escono perfetti incapaci. È un dramma per
tutti, perché non saranno in grado di competere nel mondo del
lavoro globalizzato". Il resto del mondo punta sull'innovazione e
la scuola, noi no. Restiamo dei conservatori, decliniamo latino e
greco, ma inglese e matematica sono hobby per pochi. La Lega chiede
l'esame di lingua agli stranieri che vogliono lavorare sotto le
Alpi, ma sono molti gli italiani che - davanti a una prova scritta
- rischiano di fare peggio di ucraini e sudamericani. Se i dati
della ricerca 'Pisa' dell'Ocse fanno degli alunni meridionali i più
asini d'Europa, uno studio dell'Accademia della Crusca ha rivisto
il tema d'italiano dell'esame di maturità del 2007: fosse stato per
gli esperti dell'istituzione fiorentina più della metà del campione
sarebbe stato da bocciare, invece professori troppo buoni (o troppo
impreparati) hanno promosso tutti. Il livello è tale che a Torino
nel 2009 la facoltà di Medicina ha deciso di organizzare corsi di
recupero di grammatica e sintassi. L'ultima cattiva notizia arriva
dalla Corte dei conti, dove i magistrati hanno sbertucciato la
riforma della 'laurea breve' voluta dal centrosinistra oltre dieci
anni fa: nessun laureato in più, nessun miglioramento della
qualità.
"Della scuola non importa niente a nessuno, eppure tra alunni,
insegnanti, bidelli e ministeriali nel sistema formativo nazionale
ogni giorno lavorano e studiano oltre 10 milioni di persone",
chiude Vaciago, "è la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi un
governo. Bisognerebbe valorizzare i talenti, smantellare gli
sprechi legati alle carriere dei professori, costruire aule. Invece
la riforma Gelmini va in senso contrario". Il curriculum del
ministro Mariastella, d'altronde, non riserva sorprese: il
pellegrinaggio in tre licei prima della maturità, la laurea in
giurisprudenza in sette anni (voto 100) e la trasferta a Reggio
Calabria per diventare avvocato sono le tappe tipiche della nuova
classe dirigente.
(Emiliano Fittipaldi, L'Espresso, 13 maggio 2010)
L'Italia e il paziente che l'America non cura
In questi giorni a uno dei nostri Ospedali è arrivato per
e-mail dagli Stati Uniti questo messaggio: «Cerco un dottore che mi
aiuti per la malattia di mio fratello. Ha 33 anni e una malattia
rarissima. Lo curano all'Hershey Medical Center in Pennsylvania, gli
stanno facendo scambi di plasma ma la pressione del sangue continua ad
aumentare, sta perdendo la vista e i suoi reni non funzionano quasi
più, il numero delle piastrine nel sangue diminuisce giorno
dopo giorno e anche i globuli rossi. Credo non ci sia più tempo
da perdere. La mia impressione è che di questa malattia in
quell'Ospedale lì ne sappiano pochino. Forse c'è una
medicina che potrebbe salvarlo, almeno così m'è sembrato
di capire, ma a lui non la danno, è una questione di assicurazione: i
suoi datori di lavoro gliel'hanno cancellata. Chiamatemi per favore in
qualunque momento» (e c'è un numero di telefono).
Ma possibile che a un giovane che si ammala venga tolta
l'assicurazione e non lo si possa più curare? Non c'è la
riforma della sanità adesso negli Stati Uniti?
La riforma c'è, o meglio ci sarà. Per adesso - salvo
avere un'assicurazione privata - per quasi 180 milioni di americani le
cure le paga l'assicurazione del datore di lavoro. Il governo paga per
i poveri, i disabili e gli anziani ma almeno 40 milioni non sono
assicurati "abbastanza" e altri 46 milioni non hanno accesso alle cure
incluse quelle più necessarie. Di questi 32 milioni saranno
assicurati dalla riforma di Obama, ma solo a partire dal
2014. Comunque la riforma non prevede una copertura per tutti, tanti -
forse 20 milioni - resteranno fuori. Le persone giovani per esempio,
quelli che hanno appena incominciato a lavorare come il fratello della
ragazza della lettera. Il datore di lavoro non li assicura ma loro il
lavoro ce l'hanno, e così non possono accedere
all'assicurazione del governo per i poveri (Medicaid) e sono troppo
giovani per aver accesso a Medicare, la forma attraverso cui il
governo cura gli anziani.
«Obama ha aperto una strada - scrive in questi giorni il British
Medical Journal in un editoriale - ma resta ancora moltissimo da
fare». Cosa si potrà fare di più? Un progetto ci
sarebbe. L'hanno pubblicato qualche anno fa sul giornale
dell'Associazione dei Medici Americani ed è condiviso da
ottomila dottori (tra loro c'è Marcia Angell, ex direttore del
New England Journal of Medicine). Partono dall'idea che la salute
è un diritto per tutti non solo per chi ha un buon impiego, e
che va garantito dalla società. «E poi» dicono
«è l'ammalato che deve prendere le decisioni sulla
propria cura, insieme al suo medico. Non le assicurazioni o
l'industria del farmaco, che decidono le cure a seconda di quello che
conviene loro». Questi medici vorrebbero una National Health
Insurance - un po' come il nostro servizio sanitario, insomma -
sostenuta dalle tasse. E che fosse per tutti, per tutte le fasce
d'età, per le emergenze mediche e per le malattie croniche,
incluse malattie mentali e cura dei denti. Così ci sarebbe
anche in America il diritto alla salute. Aumenterebbero le tasse, ma
solo per i redditi più alti. Gli altri pagherebbero una tassa
in più per la salute ma non si dovrebbero occupare più
dell'assicurazione.
Certo, per avere buone cure con una spesa ragionevole bisognerà
prima stabilire cosa serve davvero ed escludere dai rimborsi le cure
non necessarie e non efficaci.
Il ragazzo della lettera verrà da noi. Forse guarirà o
forse no, dipende anche dalla nube, e se arriverà in tempo.
Il farmaco che gli serve l'hanno inventato negli Stati Uniti e lo
fabbricano a Smithfield, vicino a Boston. Ma a lui adesso non lo
possono dare. E non l'avrebbe nemmeno se la riforma di Obama fosse in
vigore già oggi.
(Giuseppe Remuzzi, Corriere della Sera, 20 aprile 2010)
Sconnessi e somari
Homo videns e homo zappiens
Analfabeta è chi non sa l'alfabeto, e che perciò non sa leggere
né scrivere. Beninteso, anche l'analfabeta parla e capisce frasi
elementari. Per esempio capisce la frase «il gatto miagola», ma è
già in difficoltà se la frase diventa «il gatto miagola
perché vorrebbe bere il latte». L'esempio è di Tullio De
Mauro, principe dei nostri linguisti, che torna alla carica con una nuova
edizione del suo libro La cultura degli italiani.
Cultura o incultura?
I suoi dati dicono che il 70% degli italiani è pressoché
analfabeta o analfabeta di ritorno: fatica a comprendere testi, non
legge niente, nemmeno i giornali. Per il sapere un 70% di somari è
una maggioranza deprimente; e per la politica costituisce un'asinocrazia
travolgente e facile da travolgere. Perché siamo arrivati, o scesi,
a tanto? Quasi tutti puntano il dito sullo sfascio della scuola, a tutti
i livelli. Perché è la scuola che dovrebbe «alfabetizzare».
Sì, ma chi ha sfasciato la scuola? Alla fonte, e più di
ogni altro, sono stati i pedagogisti, il «novitismo pedagogico»,
i diseducatori degli educatori. E poi, s'intende, tanti altri: il
sessantottismo demagogico dei politici, e anche la marea dilagante
delle famiglie Spockiane (illuminate dal permissivismo a gogo del celebre
dottore Benjamin Spock).
Ma quando si discute di trasformazioni della natura umana (io nel 1997
nel libro Homo Videns e di recente altri con la formula dell'Homo
Zappiens) allora il fattore decisivo è la tecnologia. Così
alla fine del 1400 nasce l'uomo di Gutenberg con l'invenzione della
riproduzione a stampa della preesistente scrittura a mano; così,
sostengo, l'invenzione della televisione crea un uomo forgiato dal «vedere»
il cui sapere e capire si riduce all'ambito delle cose visibili a danno
delle idee, delle immagini mentali create dal pensiero. Al limite, l'homo
videns sa soltanto se vede e soltanto di quel che vede. Il che equivale a
una perdita colossale delle nostre capacità mentali. Invece la
teoria dell'homo zappiens trasforma questa perdita in una glorificazione,
in un annunzio di nuovi e gloriosi destini.
La dizione è ricavata dal telecomando che consente e produce il
cambiamento incessante dei canali televisivi; il che abituerebbe il nostro
cervello al cosiddetto multitasking, al saper fare molte cose
contemporaneamente. Davvero? Io direi, invece, che così veniamo
abituati alla «sconnessione», a un saltare di palo in frasca che equivale
alla distruzione della logica, della capacità logica di pensare una
cosa alla volta, di mettere questa scomposizione analitica in sequenza, e
nell'accertare se un rapporto prima-dopo sia anche un rapporto causa-effetto.
Il progresso della tecnica è inevitabile. Ma deve essere contrastato
quando produce l'homo stupidus stupidus. Sempre più i ragazzi di oggi
vivono per 12 ore al giorno in «iperconnessione» e così, anche, in
«sconnessione». Sono giustamente disgustati dalla politica. Ma dovrebbero
anche essere disgustati di se stessi. Cosa sapranno combinare da grandi?
(Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 22 marzo 2010)
Una crisi sprecata
Stiamo sprecando le opportunità di riforma offerte dalla crisi.
È un vero delitto, data l'angoscia e le sofferenze che ha
creato, e il peso che ha caricato sulle spalle delle finanze
pubbliche. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si occupano di hedge fund e
«credit default swap» (o CDS, quei contratti con i quali
ci si assicura contro il fallimento dei debitori e che sono usati,
secondo le loro accuse, per scommettere contro l'euro). O non hanno
capito niente, o devono creare diversivi per distrarre l'attenzione
dalla precarietà delle loro grandi banche e delle finanze
pubbliche. Gli hedge fund, per esempio, sono molto, ma molto, meno a
rischio delle banche. Speculano molto meno e la volatilità del
loro capitale negli ultimi 10 anni è stata meno di un terzo di
quella delle banche. Il rischio che gli hedge aggressivi hanno in
portafoglio è supportato da un livello di capitale pari a circa
3 volte il minimo prudenziale richiesto alle banche, ed è il
doppio almeno di quello che avrebbero le banche a parità di
rischio. In questa crisi, pochi hedge sono falliti e nessuno ha messo
a rischio il sistema o ha dovuto essere sostenuto con denaro pubblico.
Potenza dell'autodisciplina imposta dal mercato ad operatori che non
sono troppo grandi per fallire e che hanno quasi sempre tutto il loro
patrimonio personale investito nei fondi che gestiscono. Malgrado
l'alleggerimento delle regole contabili, la situazione delle grandi
banche resta preoccupante, come spiega uno studio della Banca del
Ceresio ripreso dal Financial Times. L'analisi dei bilanci a fine 2009
delle prime 5 banche americane ed europee evidenzia per questi 10
istituti una leva ancora di 18 volte: meno di 6 euro di capitale ogni
100 euro di attivi. Se i loro attivi perdono più del 5,5%,
queste banche si ritrovano insolventi. Gli ottimisti notano che con
una leva così se si guadagna più di un euro all'anno
ogni cento di attivi, come sta in effetti succedendo, in 5 anni si
ricostruisce il capitale. Ma un Return on Equity superiore al 20% in
un'industria soggetta a regole prudenziali e finanziata da depositi
garantiti dai contribuenti è sintomo di mezzi propri
insufficienti, non di alta redditività ed efficienza che
vengono poi prese come scuse per intascare bonus milionari. Che
rischio hanno gli attivi di queste 10 grandi banche? Dai bilanci si
evince un rapporto tra attivi ponderati per il rischio ed attivi
totali del 46 per cento. Se fossero investite solo in obbligazioni AAA
il rapporto sarebbe del 25%, mentre se fossero investite solo in
azioni quotate sarebbe 125 per cento. Una via di mezzo quindi. In
pratica il profilo di rischio è identico a quello del
portafoglio di un signore che, avendo 100 euro di risparmi propri, ne
avesse investiti 390 in azioni e 1.470 in bond AAA, facendosi
finanziare la differenza da qualche matto. Ma i matti siamo tutti noi,
o come depositanti, o come contribuenti, chiamati poi a salvare le
banche che con questo profilo di rischio hanno la certezza di
ritrovarsi insolventi almeno ogni 5 anni, se facessero i conti
giusti... Purtroppo politici e regolatori non sembrano interessati a
porsi le domande da cui potrebbero nascere le riforme di cui abbiamo
urgente bisogno. Che mestieri devono fare le banche e con quanto
capitale? Ormai per ognuno dei mestieri che fanno esistono
intermediari specializzati e meglio capitalizzati. Chi deve imporre la
disciplina alle banche? I regolatori hanno clamorosamente fallito
proprio nel settore ove avevano i più vasti poteri. Che mercati
finanziari vogliamo? Il grosso dell'intermediazione avviene in alvei
opachi di negoziazione dominati da pochi grandi banche che intascano
indebite rendite oligopolistiche, mentre i mercati regolamentati
vengono indeboliti da normative nefaste come la MIFID. È
giusto anche chiedersi che ruolo devono avere i CDS. Ma prendersela
con un ambasciatore probabilmente inadatto perché il suo
messaggio porta pena è un pessimo uso del poco tempo che ci
resta prima che si perda il senso di urgenza della crisi e si ritorni
ad una normalità ancora più precaria della precedente.
Dato lo stato delle finanze pubbliche, non avremo più per
troppi anni le risorse per arginare un'altra crisi finanziaria
così efficacemente come fatto finora.
(Giovanni Foglia, Corriere della Sera, 22 marzo 2010)
It wasn't us
Alan Greenspan and Ben Bernanke still do not believe
monetary policy bears any blame for the crisis
THE desire to rescue a damaged reputation is a powerful
motivator. That is one conclusion to draw from a new 48-page paper
written for the Brookings Institution by Alan Greenspan, the
83-year-old former chairman of America’s Federal Reserve. A man once
hailed as the world’s outstanding central banker is now routinely
blamed for the asset bubble and subsequent collapse. This is Mr
Greenspan’s attempt to set the record straight.
The crisis, he argues, stemmed from a “classic euphoric bubble”
whose roots lay in the sharp global decline in nominal and real
long-term interest rates in the early part of the 2000s, which fuelled
an unsustainable boom in house prices. Thanks to this euphoria, banks
misread the risks embedded in complex new financial instruments. Mr
Greenspan reckons the best remedy is to improve the system’s capacity
to absorb losses by raising banks’ capital and liquidity ratios and
increasing collateral requirements for traded financial products.
So far, so uncontroversial. Mr Greenspan’s analysis of the
fragilities within finance, and his specific proposals, echo today’s
policy consensus. The one area where he differs from the reform
consensus is over the wisdom of a “systemic regulator”. Today’s
policymakers see such a regulator, which would monitor the health of
the financial system and sniff out incipient problems, as an important
improvement. Mr Greenspan says it is impossible to anticipate crises
and regards such a regulator as “ill-advised”.
But the biggest gap between Mr Greenspan and conventional wisdom
lies in the role of monetary policy in causing the crisis. In Mr
Greenspan’s telling, central banks were innocent and impotent
bystanders in a global macroeconomic shift. Thanks to the end of the
cold war and reform in China, he argues, hundreds of millions of
workers were absorbed into the global economy. As GDP growth in
emerging economies soared, their consumption could not keep up with
rapidly rising income, and saving rose. The rise in desired global
saving relative to desired investment caused a global decline in
long-term rates, which became delinked from the short-term rates that
central bankers control.
This explanation is broadly similar to the idea of a “global
saving glut” which Ben Bernanke, the Fed’s current chairman, has
long espoused. The similarities between the two men’s defence of
their monetary records do not end there. The most combative section in
Mr Greenspan’s paper—arguing that monetary policy in the early 2000s
was not a cause of the housing bubble—is strikingly similar to a
speech given by Mr Bernanke at the American Economics Association’s
annual meeting in January.
Both men make three broad points. First, they deny that monetary
policy in the early 2000s was excessively loose by traditional
central-bank rules of thumb. That is a criticism frequently made by
John Taylor of Stanford University, author of the Taylor rule on how
interest rates should change in response to movements in inflation and
GDP. Mr Bernanke points out that based on contemporary forecasts for
its preferred inflation measure, the Fed actually followed the Taylor
rule reasonably closely.
Second, both men say there is no evidence that low short-term rates
drove house prices upward. Mr Greenspan argues that the statistical
relationship between house prices and long-term rates is much stronger
than with the Fed’s policy rates, and that during the early 2000s the
traditionally high correlation between policy rates and long-term
rates fell apart. Mr Bernanke points to structural models which show
that only a modest part of the house-price boom can be pinned on
monetary policy.
Both are equally sceptical that the increase in adjustable-rate
mortgages made short-term rates a more potent driver of house
prices. Mr Greenspan says that the pace of adjustable-rate mortgage
originations peaked two years before house prices, suggesting they
were not driving the bubble. Mr Bernanke argues that the monthly
payments on adjustable-rate mortgages were, on average, only 16% lower
than those for fixed-rate mortgages—too small a gap to suggest that
short-term rates propelled the boom.
Third, Messrs Bernanke and Greenspan point to the global nature of
the house-price boom as proof that monetary policy was not to
blame. Both cite new research from economists at the Fed showing that
the looseness of monetary policy in different countries was not
correlated with changes in house prices.
Protesting too much
There is something odd about central bankers denying any
responsibility at all for long-term rates, which are, in principle,
based partly on an assessment of a stream of short-term rates. Nor is
it clear that low short-term rates were as irrelevant as Messrs
Bernanke and Greenspan suggest. Jeremy Stein of Harvard University, a
discussant of Mr Greenspan’s Brookings paper, points out that low
policy rates may have mattered a great deal for income-constrained
borrowers. He points out that adjustable-rate mortgages were used much
more in expensive cities, a trend that became more pronounced as the
fund rates fell.
By looking only at the effect of monetary policy on house prices,
Messrs Bernanke and Greenspan also take too narrow a view of the
potential effect of low policy rates. Several economists have argued
convincingly, for instance, that low policy rates fuelled broader
leverage growth in securitised markets.
Monetary policy may be a blunt tool to deal with asset bubbles. But
that does not mean it is irrelevant. Interestingly, one American
central banker has a more nuanced view, arguing that “in the current
episode, higher short-term interest rates probably would have
restrained the demand for housing by raising mortgage interest rates…
In addition, tighter monetary policy may be associated with reduced
leverage and slower credit growth.” That was Janet Yellen, president
of the San Francisco Fed, who is likely to be Mr Bernanke’s new
vice-chairman. With luck, she will prompt her boss to have a
rethink.
(The Economist, March 20th 2010)
Smokescreen
Blaming speculators for sovereign-debt woes is
misguided. Banning them would be worse
GREECE had a budget deficit of 12.7% of GDP in 2009. It has a
record of dodgy accounting. Its own leaders acknowledge how dire its
fiscal situation is. George Papaconstantinou, the country’s
finance minister, summed it up pretty well last month. People
think we are in a terrible mess. And we are.
That hasn’t stopped his boss, George Papandreou, and other
European leaders from jabbing fingers elsewhere. To judge by this
week’s political rhetoric, the blame for Greece’s woes
lies largely with speculators, who stand accused of buying sovereign
credit-default swaps (CDSs), a form of insurance against government
default, in the hope of profiting from jitters about sovereign debt.
“Unprincipled speculators are making billions every day by
betting on a Greek default,” said Mr Papandreou in a speech in
Washington, DC.
The wheels of policy are now turning. The European Commission has
said it will examine the case for banning “naked”
sovereign CDSs, in which buyers of protection on government debt do
not actually own any of the underlying bonds. A European ban would not
do much good on its own: trading would simply move to other markets.
The official American response to Mr Papandreou has been tepid. But
the issue is on the G20’s radar. The Financial Stability Board,
which is co-ordinating international financial reform, thinks that
tighter rules are likely.
Some reform of the market for sovereign CDSs is needed. Like other
credit-default swaps, there is a strong case for moving these
over-the-counter instruments on to central clearing-houses, which
stand between buyers and sellers and reduce counterparty risk.
Sensible changes of this kind are already in train in Europe and
America. But the idea that speculators are to blame for Greece’s
troubles is wrong-headed, and the solution of banning naked sovereign
CDSs is even worse.
First, the diagnosis. The case against buyers of sovereign CDSs is
that by driving up the price of insuring against default, they cause
spreads on underlying cash bonds to widen, making borrowing more
expensive and bringing default—and a big payout—closer.
That drives up the price of insurance further, setting the cycle in
motion again. The problem with this analysis is that the tail is far
too puny to wag the dog. There are $9 billion of net Greek sovereign
CDSs outstanding, compared with more than $400 billion of Greek
government bonds. It is a similar story in other countries under
pressure. According to the Bank for International Settlements, the
proportion of net CDS positions to government debt is highest in
Portugal, at just 5%. Moreover, CDS and bond prices have tended to
move together, rather than one driving the other.
Naked self-interest
Even so, surely it cannot be right for people who do not own any
government debt to profit from sovereign distress? Actually, it can.
When states get into trouble, other borrowers suffer too: taxes rise,
economies slow. So investors in Greek companies have legitimate reason
to protect themselves against Greek sovereign risk. If they cannot,
they will simply charge companies a higher risk premium instead.
Buyers of protection also have to find sellers—banks, say, or
hedge funds. But sellers want to offload their risk as well. If
sellers are not allowed to buy protection themselves, investors will
find it harder to hedge. If so, banning naked CDSs could end up making
it more expensive for governments to borrow.
There is a long tradition of shooting messengers who bring bad
news. But the simple explanation for rising borrowing
costs—Greece’s finances are tatty—makes far more
sense than the complex, politically convenient one. The sovereign-CDS
debate is a smokescreen to obscure an unpalatable truth.
(The Economist, March 11th 2010)
Poison Ivy
Not so much palaces of learning as bastions of privilege and
hypocrisy
AMERICAN universities like to think of themselves as engines of social
justice, thronging with “diversity”. But how much truth is there
in this flattering self-image? Over the past few years Daniel Golden has
written a series of coruscating stories in the Wall Street Journal
about the admissions practices of America's elite universities,
suggesting that they are not so much engines of social justice as bastions
of privilege. Now he has produced a book—“The Price of
Admission: How America's Ruling Class Buys Its Way into Elite
Colleges—and Who Gets Left Outside the Gates”—that
deserves to become a classic.
Mr Golden shows
that elite universities do everything in their power to admit the children
of privilege. If they cannot get them in through the front door by relaxing
their standards, then they smuggle them in through the back. No less than
60% of the places in elite universities are given to candidates who have
some sort of extra “hook”, from rich or alumni parents to
“sporting prowess”. The number of whites who benefit from this
affirmative action is far greater than the number of blacks.
The American
establishment is extraordinarily good at getting its children into the best
colleges. In the last presidential election both candidates—George
Bush and John Kerry—were “C” students who would have had
little chance of getting into Yale if they had not come from Yale families.
Al Gore and Bill Frist both got their sons into their alma maters (Harvard
and Princeton respectively), despite their average academic performances.
Universities bend over backwards to admit “legacies” (ie, the
children of alumni). Harvard admits 40% of legacy applicants compared with
11% of applicants overall. Amherst admits 50%. An average of 21-24% of
students in each year at Notre Dame are the offspring of alumni. When it
comes to the children of particularly rich donors, the
bending-over-backwards reaches astonishing levels. Harvard even has
something called a “Z” list—a list of applicants who are
given a place after a year's deferment to catch up—that is dominated
by the children of rich alumni.
University
behaviour is at its worst when it comes to grovelling to celebrities. Duke
University's admissions director visited Steven Spielberg's house to
interview his stepdaughter. Princeton found a place for Lauren
Bush—the president's niece and a top fashion model—despite the
fact that she missed the application deadline by a month. Brown University
was so keen to admit Michael Ovitz's son that it gave him a place as a
“special student”. (He dropped out after a year.)
Most people think
of black football and basketball stars when they hear about “sports
scholarships”. But there are also sports scholarships for rich white
students who play preppie sports such as fencing, squash, sailing, riding,
golf and, of course, lacrosse. The University of Virginia even has
scholarships for polo-players, relatively few of whom come from the inner
cities.
You might imagine
that academics would be up in arms about this. Alas, they have too much skin
in the game. Academics not only escape tuition fees if they can get their
children into the universities where they teach. They get huge preferences
as well. Boston University accepted 91% of “faculty brats” in
2003, at a cost of about $9m. Notre Dame accepts about 70% of the children
of university employees, compared with 19% of “unhooked”
applicants, despite markedly lower average SAT
scores.
Why do Mr Golden's
findings matter so much? The most important reason is that America is
witnessing a potentially explosive combination of trends. Social inequality
is rising at a time when the escalators of social mobility are slowing
(America has lower levels of social mobility than most European countries).
The returns on higher education are rising: the median earnings in 2000 of
Americans with a bachelor's degree or higher were about double those of
high-school leavers. But elite universities are becoming more socially
exclusive. Between 1980 and 1992, for example, the proportion of
disadvantaged children in four-year colleges fell slightly (from 29% to 28%)
while the proportion of well-to-do children rose substantially (from 55% to
66%).
Mr Golden's
findings do not account for all of this. Get rid of affirmative action for
the rich, and rich children will still do better. But they clearly account
for some differences: “unhooked” candidates are competing for
just 40% of university places. And they raise all sorts of issues of justice
and hypocrisy. What is one to make of Mr Frist, who opposes affirmative
action for minorities while practising it for his own son?
The poor left behind
Two groups of
people overwhelmingly bear the burden of these
policies—Asian-Americans and poor whites. Asian-Americans are the
“new Jews”, held to higher standards (they need to score at
least 50 points higher than non-Asians even to be in the game) and
frequently stigmatised for their “characters” (Harvard
evaluators persistently rated Asian-Americans below whites on
“personal qualities”). When the University of California,
Berkeley briefly considered introducing means-based affirmative action, it
rejected the idea on the ground that “using poverty yields a lot of
poor white kids and poor Asian kids”.
There are a few
signs that the winds of reform are blowing. Several elite universities have
expanded financial aid for poor children. Texas A&M
has got rid of legacy preferences. Only last week Harvard announced
that it was getting rid of “early admission”—a system that
favours privileged children—and Princeton rapidly followed suit. But
the wind is going to have to blow a heck of a lot harder, and for a heck of
a lot longer, before America's money-addicted and legacy-loving universities
can be shamed into returning to what ought to have been their guiding
principle all along: admitting people to university on the basis of their
intellectual ability.
(The Economist, September 21st 2006)
Entlaßt die Experten
Es dürfte mittlerweile keinem aufmerksamen Menschen entgangen
sein: Die Prognosen der Wirtschaftsforschungsinstitute sind
ungefähr so zuverlässig wie die Orakel von Sterndeutern und
Kaffeesatzlesern. Monat für Monat wird das Ritual
unerschütterlich wiederholt. Man verkündigt die frohe
Botschaft, wir seien bereits aus der Sohle des Tränentals heraus,
um im gleichen Zug zu erklären, daß sich die letzte
Vorhersage als falsch erwiesen hat und „nach unten
revidiert” werden muß. Erneut werden Daten und Indizes
prophezeit, nach denen sich die Entscheidungen der Politik und das
Verhalten der Wirtschaftsakteure richten sollen. Bis zur nächsten
Korrektur.
Mehr noch als ihr chronisches Versagen verblüffen die
Erklärungen der Experten dafür. Wieso wurden die
Konjunkturprognosen widerlegt? Weil die Konjunktur sich schlechter
entwickelt hat als angenommen. Man bewundere die Seriosität des
Arguments: Es ist, als ob ein Meteorologe einen sonnigen Tag in
Brandenburg vorhersagte, um am nächsten Tag zu erklären:
„Zwar hat es pausenlos geregnet, doch dies bedeutet keineswegs,
daß meine Prognose falsch war. Nur kamen unerwartet Regenwolken
aus Polen gezogen und verschoben den Sonnenschein ein wenig. Aber die
Tendenz geht Richtung Sommer.” Wenn nun angekündigt wird,
daß die letzte Konjunkturprognose wegen des hohen Ölpreises
nach unten korrigiert werden müsse, drängt sich die Frage
auf: War das voraussehbar? Wenn nein, dann nützt die Vorhersage
nichts, wenn ja, dann haben die Experten versagt.
Eine weitere Ad-hoc-Erklärung lautet: Die Daten sind gut, aber
die Wirtschaftssubjekte haben sie noch nicht als solche wahrgenommen
und verhalten sich weiterhin, als ob sie schlecht seien, was sie
wiederum verschlechtert. Wer hätte das gedacht? Nicht die
Nürnberger Gesellschaft für Konsumforschung jedenfalls, die
Monat für Monat einen Null-Komma-etwas-Anstieg des
„Konsumklimas” vorgaukelt, um kurz daraufhin
festzustellen: „Noch fehlt den Bürgern der Glaube an den
Aufschwung.” Ohne Glaube geht nichts.
Im Grunde wird also das Scheitern wie folgt begründet:
Hätten sich nur die Bürger gemäß den Prognosen
verhalten, dann wären die Prognosen gültig gewesen. Im
Himmel der Ökonomie schweben unbefleckte Zahlen, Kurven und
Indizes, die sich harmonisch und voraussehbar verhalten, doch auf
Erden handeln Menschen und, ob Unternehmer, Investoren,
Lohnabhängige oder Almosenempfänger, sie machen alles
falsch, stellen sich quer zur ökonomischen
Rationalität.Man
könnte glauben, daß der handelnde Mensch Hauptgegenstand
der Wirtschaftswissenschaft sei, doch er wird als Störfaktor
jener mechanischen Gesetzmäßigkeit angesehen, die das
Weltgeschehen regelt. An dieser Trennung zwischen Reinheit und
Sünde ist das fundamentalistisch-religiöse Moment der
Ökonomie zu erkennen.
Es wäre nun ein Irrtum, einzelnen Experten oder Instituten
vorzuwerfen, sie seien unzureichend kompetent, in die Zukunft zu
blicken. Die Ursache sitzt tiefer, nämlich darin, daß die
Ökonomie trotz ihrer Ansprüche keine positive Wissenschaft
ist und sein kann. Der Würzburger Wirtschaftsprofessor Karl-Heinz
Brodbeck bringt zwei prinzipielle Gründe für das
prognostische Scheitern vor. Erstens werde das, was Konjunktur genannt
werde, aus unzähligen Phänomenen gewoben, die weltweit
interagierten und von niemandem überblickt werden
könnten. Dies um so mehr, als das Wirtschaftsfeld auch und vor
allem von Parametern beeinflußt werde, die von außen her
kämen. Der zweite Grund:
Experten seien keine Beobachter eines ihnen äußerlichen
Gegenstands, sondern selbst Teil des Gegenstands. Prognosen sind nicht
neutral. Wenn ich zum Beispiel ankündige, daß eine Firma
demnächst insolvent wird, und mir Glauben geschenkt wird, dann
beeinflusse ich das Verhalten von Kunden, Lieferanten und
Aktionären, und die Firma gerät erst recht in
Schwierigkeiten. Ich habe die Tatsache nicht vorhergesagt, sondern
mitverursacht. Wirtschaftssubjekte reagieren auf eine Vielzahl von
Reizen, darunter auch Prognosen und maßgebliche Meinungen. Daher
meint Brodbeck: „Die Anwendung der Theorie ist ihre
Falsifikation.”
Gerade diese Eigenschaft erklärt, warum Prognosen, obwohl
systematisch falsch, eine zentrale Stelle im Wirtschaftsgeschehen
einnehmen. Auf die Bestätigung kommt es nicht an. Ihre Funktion
ist nicht prädiktiv, sondern normativ. Sie machen keine
wissenschaftlichen, sondern politische Aussagen. Hinter der
Scheinobjektivität mathematischer Modelle versuchen bestimmte
Akteure, die Handlungen anderer Akteure zu beeinflussen. Wenn die „Erwartungen”
der Haushalte veröffentlicht werden, dann wird damit gerechnet,
daß jeder Haushalt sein Verhalten dem angekündigten Konsens
anpassen wird. Zudem beschränken sich Experten nicht darauf,
leere Vorhersagen zu liefern. Sie beraten auch
Entscheidungsträger. Dabei dürfen ihre schulmeisterlichen
Empfehlungen um so radikaler sein, als sie weder auf Wähler noch
auf Belegschaften Rücksicht nehmen müssen.
Der gesellschaftliche Stand der Wirtschaftsexperten entspricht dem des
mittelalterlichen Klerus. Kein Staatsmann kann ohne ihre Salbung
regieren. Sie sind die Hüter des Glaubens. Daher vermischt sich
in ihrem Charakterbild die Süffisanz des Prälats mit dem
Eifer des Missionars. Ihr unantastbares Dogma heißt
Wachstum. Daran wird alles gemessen. Vergessen sind die alten
Mahnungen, Wachstum könne nicht ewig fortgesetzt werden, ohne an
katastrophale Grenzen zu stoßen. Mittlerweile haben sich nicht
nur die Grünen, sondern auch viele Globalisierungsgegner zum
Dogma bekehrt. Und doch reicht es, nach China zu blicken, um die
zerstörerischen Effekte starken Wachstums festzustellen.
Aber die heilige Kuh darf nicht angetastet werden, weil sie einen
zweiten Glaubenssatz nährt, nämlich, daß
Arbeitsplätze erst von zwei Prozent Wachstum an entstehen
können. Und wir wissen ja: Ganz gleich, ob sie zu etwas
nützen und genug bezahlt werden oder nicht, Arbeitsplätze
sind das höchste moralische Gut. Da sind wir wieder im magischen
Reich der Prognosen angelangt, wogegen die Erfahrung keinen Einwand
erheben darf. Daß Rekordgewinne vor Massenentlassungen nicht
schützen, ist mittlerweile bekannt. Selbst wenn das
Wachstumswunder also geschehen würde, ahnen wir, wie dann
argumentiert würde: Es ist noch zu früh, um die Erträge
auszuschütten. Schließlich löst sich die vertrackte
Wirtschaftstheologie in simple Gebote auf: Unternehmen und
Spitzenverdiener sollen von Steuern und sonstigen gesellschaftlichen
Verpflichtungen befreit werden. Beschäftigte sollen weniger Geld
und längere Arbeitszeiten hinnehmen. Um auf solche Anweisungen zu
kommen, ist es nicht nötig, ein Studium der Ökonomie
absolviert zu haben.
Das Berliner DIW, das Kölner IW, das Hallenser IWH, das
Münchner ifo-Institut, nicht zu vergessen die fünf
weißbärtigen „Wirtschaftsweisen” - all diese
Konvente und Konzile bilden eine einheitliche Gesellschaft zur
Verbreitung des Glaubens. Ihre einzig erkennbare Leistung ist die
Massenbeeinflussung des Verhaltens. Die gute Nachricht ist aber,
daß die Wirkung immer häufiger ins Gegenteil
umschlägt. Der pseudowissenschaftliche Firnis ist rissig
geworden. Zuviel falsche Prophezeiungen verderben das Vertrauen. Geben
Experten eine Prognose bekannt, wird ihr Widerruf bereits
erwartet. Kündigen sie einen neuen Reformplan an, wird mit
weiterer Verschlechterung gerechnet. Die Priester der Ökonomie
werden heute nicht ernster genommen als früher
SED-Funktionäre beim Ergebnisbericht des
Fünfjahresplans. Von immer breiteren Teilen der Bevölkerung
wird die endlose Schleife ihres Geredes nur noch als störendes
Geräusch aufgenommen. Daher sollte man die Wirtschaftsexperten
schonen. Sie sind die besten Agenten im Dienst der
Demotivation.
(Guillaume Paoli, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19 Aprile 2005)
Aburrimos a las ovejas más aburridas
Estamos viviendo, desde hace ya algún tiempo, una guerra económica entre tres
bloques: de un lado, los países del área del Pacífico (especialmente, pero
no exclusivamente, India, China y Japón); de otro, los EE.UU. más Canadá y
Méjico; y por fin la Europa de los 25, que seguirá creciendo en número de
países hasta agotar la cantera europea. Hagamos un resumen de la situación
de los tres bloques y una predicción sobre vencedores y vencidos.
. El área del Pacífico se ha convertido en la zona de mayor crecimiento
económico y en su consecuencia en la de mayor atractivo para las inversiones
mundiales. Hasta ahora China era -y seguirá siendo- la estrella del
espectáculo con una media del 10 por ciento de crecimiento durante dos
décadas, un crecimiento esplendoroso que va acompañado por un buen
desarrollo científico y tecnológico y protegido por un realismo político
verdaderamente sofisticado que está poniendo en marcha una radical
transformación de la sociedad para prepararla a la auténtica libertad
económica y política. A China se le une ahora con fuerza la mayor democracia
del mundo, India, un país de más de mil millones de habitantes, que ha
entrado en el desarrollismo económico acelerado con un crecimiento del 10,4
por ciento en el 2003 y con una inteligente política orientada a la
atracción de centros y «hubs» tecnológicos en razón, al parecer, de la
especial y superior capacidad de sus ciudadanos para estas tareas. Mucha
gente opina que a medio plazo India será más importante que China en cuanto
a acción económica. Finalmente, Japón, con su democracia asentada, está
empezando a salir del túnel de una extraña depresión económica que ha durado
más de una década y que ha forzado una reestructuración absoluta de su
sistema financiero, cambios de fondo en el modelo empresarial y asimismo
cambios sociológicos muy significativos, y en especial en cuanto al papel de
la mujer y de la juventud. La recuperación de Japón es un dato de la mayor
trascendencia por cuanto se trata de la segunda economía del mundo con un
PIB actual que supera al de India y China juntas. La sinergia entre los tres
países puede producir resultados espectaculares por cuanto son tres
economías de alta productividad con costes laborales altos en Japón y muy
bajos -más bajos que en los nuevos países europeos- en India y China. Hay
que tener en cuenta además que en el área del Pacífico juegan otros países
que pueden aportar nuevos incentivos, como es el caso de Malasia (con un
crecimiento del 7,6 por ciento), Singapur (7,5 por ciento), Filipinas (6,4
por ciento) y Corea (5,3 por ciento). Es por estas razones por las que un
economista americano ha asegurado que a partir de ahora, de cada dólar que
se invierta fuera del país, 75 centavos irán al área del Pacífico y 25
centavos al resto del mundo. Para los EE.UU. la agenda del Pacífico es, en
efecto, mucho más importante que la de Europa en todos los sentidos y ese
dato debe preocuparnos seriamente.
. Los EE.UU. son la primera potencia del mundo, una auténtica potencia
hegemónica. Es un país que, para mejor proteger su seguridad, ha decidido
pasar de la mera influencia a un liderazgo activo y que ya ha declarado
oficial y públicamente el objetivo concreto de mantener su abrumadora
supremacía militar, científica, tecnológica, económica y cultural sobre
Europa y el resto del mundo. Están, desde luego, en perfectas condiciones
para lograrlo por más que tengan que ir superando algunas incompetencias
clásicas, sobre todo en política exterior, unas incompetencias que la
administración actual ha llevado a niveles excesivos, a niveles
verdaderamente intolerables. Tanto si es reelegido el presidente Bush como
si ganara el senador Kerry, los EE.UU. irán mejorando aceleradamente en esta
materia porque ya han empezado a darse cuenta -hay pocos pero buenos signos-
de que el poder blando que propugna Joseph Nye es mucho más rentable y
eficaz que el poder duro, prepotente y soberbio que han impuesto hasta ahora
los llamados «neocons», un grupo francamente peligroso que defiende un
americanismo agresivo, militante, fanáticamente patriótico, xenófobo y de
inspiración religiosa que tiene muchas similitudes con el propio
fundamentalismo islámico. Los EE.UU. acabarán siendo, sin duda, los mejores
líderes de una globalización con graves déficits democráticos y jurídicos y
se convencerán de que para hacerla viable será necesario -y muy conveniente
para ellos mismos- la existencia de un derecho y unas instituciones globales
eficaces.
. Europa no está pasando ciertamente por su mejor momento. La propia
idea de Europa está en cuestión porque los líderes políticos no son capaces
de darle a esa idea el atractivo, el «sexy» que debe tener. Lo hemos visto
en las recientes elecciones y lo volveremos a ver en el referéndum
constitucional. A esta crítica general deben añadirse los problemas
concretos siguientes:
- Una natalidad en decadencia (España encabeza esta lista) que, a pesar
de la inmigración, está produciendo un envejecimiento de la población que a
su vez reduce inevitablemente la vitalidad y el dinamismo de la sociedad.
Ese no es el caso de los EE.UU. que mantiene el índice de 2.1 hijos por
mujer.
- Una inmigración poco controlada y asumida, generadora de conflictos
étnicos crecientes que necesita de políticas de integración muy costosas y
muy difíciles de diseñar.
- Sectores públicos, en general sobredimensionados, que, en varios
países, en vez de decrecer, aumentan en número y en incompetencia y que
reducen gravemente el ámbito del mercado.
- Un eje franco-alemán decisivo para la historia y el futuro de Europa,
que está afrontando una grave crisis económica que va a debilitar su
capacidad de liderazgo y que va a requerir una reestructuración y una
reducción importante del gasto social, lo cual puede generar en ambos países
profundas y duraderas tensiones internas.
- Una Gran Bretaña que nunca acabará de decidir su integración plena en
Europa y que conservará su mercado de capitales, su moneda y su relación
privilegiada con los EE.UU. y con la Commonwealth.
- Unos nacionalismos intensos que generan deplorables políticas
defensivas en forma de excepciones tanto culturales como económicas y
sociológicas.
- Un mercado que está muy lejos de ser un mercado único tanto por el
peso del sector público como por las políticas proteccionistas, directas e
indirectas, visibles e invisibles.
- Una política agraria cada vez más absurda y más indefendible.
- Una incapacidad absoluta para poner en marcha políticas comunes en
temas básicos como defensa, política exterior e inmigración.
- Un antiamericanismo que, aunque esté causado en parte por los propios
americanos, hace cada vez más difícil recuperar el diálogo Atlántico y
favorece el del Pacífico.
- Un cansancio histórico profundo y un grave descenso de los niveles
éticos.
Con este pesado bagaje a cuestas -aún aceptando que se trata de una
descripción demasiado pesimista- el futuro de Europa, entre una América
claramente superior y un área del Pacífico con productividad y crecimiento
imparables, es como mínimo inquietante. Tendremos que hacer bastante más y
sobre todo algo muy distinto de lo que estamos haciendo para que nuestra
bella y culta Europa recupere el realismo, el vigor moral y la capacidad de
acción que necesita en esta difícil coyuntura. Vamos a ver si el núcleo duro
ibérico (Barroso, Borrell, Solana y Almunia) es capaz de animar el cotarro.
Siguiendo así -es frase de un funcionario español en Bruselas- «vamos a
aburrir a las ovejas más aburridas». Y además perder la guerra.
(Antonio Garrigues Walker, ABC, 31 de julio de 2004)